martedì 31 dicembre 2019

Orgiva #4

Distese desolate nei ricordi, pianure desertiche e distillati di Agave e San Pedro, le mandorle cadute su un suolo brullo e spaccato, le case bianche, crepate e abbandonate, i giorni in fila come soldati pronti a fucilare il tempo, il senso di smarrimento, le emozioni in fuga, fino a Gibilterra e poi oltre verso le linee ancora non disegnate del Marocco, le nuvole nel cielo, un attimo dopo il timido mostrarsi dell’alba, i cani affamati, i primi tossici nel vuoto delle strade ancora assonnate, dove troveremo la forza per affrontare questo inutile rincorrersi di ore senza minuti? Abbiamo cambiato scenari e costruito quinte teatrali illusorie solo perché fosse più variopinto questo crudele gioco di sguardi e sorrisi, la pelle che hai abitato se ne andrà via prima che tu la possa difendere, le vedevo scure e spettrali le entrate delle caverne sui fianchi delle antiche montagne, insieme alle ombre di santi, eremiti, profughi, vittime di regimi e dittature, perseguitati e pazzi, sarei diventato anche io uno di loro? Avrei scoperto da qualche parte il coraggio degli esuli? Avrei sacrificato gli ultimi spiragli d’amore prima di chiudere quella porta e non riaprirla mia più?
Nei respiri che mi arrivavano nel petto c’era quiete e un’oasi di silenzio e solitaria pace, il riflesso di quel luogo esisteva anche fuori di me? In modi che diventavano chiari e comprensibili solo nello smarrirsi dei sogni quella terra mi stava chiamando, pazientemente, ascoltando nel buio i miei passi, quelli di un uomo che, inciampando, cadendo e rialzandosi, tendeva le sue mani in avanti per toccare un mondo solamente sfiorato nelle profondità della propria anima. 

Ho camminato per giardini profumati, fra alberi di aranci e limoni, in cui la luce danza sui limiti della ragione e delle foglie, trasformando in visioni quello che gli occhi, in un attimo di estasi, hanno imparato a vedere.    

lunedì 30 dicembre 2019

Llainlas #1

Geometrie sacre e progetti immaginari di caserotonde da realizzare, le cortecce degli alberi e il loro odore, segni esoterici e invisibili relazioni numerologiche, ognuno lavorava in misteriosi punti spazio-temporali sulla circonferenza imperfetta della propria vita, elementi psicotropi del passato, deviazioni comportamentali chimiche, uomini di potere nascosti negli angoli di club sotterranei, le terre spezzate, i campi profughi, le carovane che il futuro avrebbe di nuovo attratto verso le proprie frontiere, il fango che dissolveva e rimodellava errori e impronte, metri cubi di aria prigionieri all’interno di stanze di mattoni e cemento, percezioni soggettive di metropoli in rivolta, i nuovi architetti sonici disegnavano progetti polidimensionali seguendo i ritmi di tamburi ancestrali, palazzi ipnotici avrebbero curvato le loro strutture in un ripetersi di circolarità post urbane, il sole e i suoi riflessi si sarebbero mostrati nel curvarsi di piani prospettici in continua mutazione psichica, ogni appartamento sarebbe diventato pura immagine speculare di un’esperienza individuale e pulsante, colori caldi, linee e punti luminosi intermittenti, schemi e codici di algoritmi trascendentali, le gocce di sostanze in avanzato stato di sperimentazione somministrate sotto la lingua, la pioggia che arrivava con le forme astratte di nuvole dadaiste, le canzoni del Peyote, le capanne sudatorie, le rocce laviche e poi tutti i discorsi e le parole, i segreti rivelati, i ricordi e le lacrime e ancora la speranza che qualcuno, un giorno, si dimenticasse di come fosse giunto fino a qui. 
Camminavamo piano sul confine di un sogno mai nato, dal quale nessuno era riuscito a fuggire, oggi o domani, comunicavamo con gesti che non significavano nulla, ogni interpretazione sarebbe diventata un messaggio di barbarie verbale, non si possono combattere i nostri desideri o confondere le sue armi di violenza erotica per atti d’amore clandestino, diceva Clive, eppure gli schiaffi e le botte continuano a colpirci sotto lenzuola sconosciute e lì, così vicini e penetranti, ci sono i tuoi occhi e la tua pelle e quello che vibra tra uno sguardo e un abbraccio e il mio cazzo duro e la dolcezza e la notte che diventa alba e le stelle che svaniscono in un grido di estasi e nuove emozioni, abbiamo passeggiato lungo sentieri di sabbia e stupore, in un mondo che solo l’immaginazione può rendere reale, le orme che scompaiano e cancellano il percorso che abbiamo compiuto, in quel che resta di questo viaggio e delle infinite possibilità che lo compongono, come specchi di ragnatele e cristalli e candore.

domenica 29 dicembre 2019

Orgiva #3

Le fessure nella roccia, il respiro delle pietre, gli alberi sospesi, le ombre dai contorni verdi e luminosi, gli antichi profili delle montagne, le linee di un corpo nudo disteso sul calore del giorno, la sabbia solida, la terra spaccata dal sole, fango e argilla. Il vento e la sua danza invisibile, una donna vestita di bianco camminava silenziosa lungo sentieri di mistero ed estasi, ore trasformate in rifugi di tempo, il perimetro di uno spazio inventato dall’anima nel quale sedersi ed aspettare. Il digiuno, l’assenza delle parole e la visione, in un attimo improvviso, di quello che eri sempre stato senza neanche saperlo, di tutto quanto sarai costretto a dimenticare per poi riviverlo di nuovo. Le feste di polvere e liquori, i balli, i canti, i cavalli al galoppo lungo orizzonti dorati, gli enormi cactus di San Pedro, il profumo del rosmarino, della menta e dell’artemisia, le tracce di uomini scomparsi in ere senza più nome, un varco, una soglia, un ennesimo passaggio per mondi diversi. Realtà multiple, parallele, una all’interno dell’altra, i percorsi onirici, il volo, i volti invecchiati, le stanze e le città che mi avrebbero atteso, la mano che scrive un romanzo che la vita renderà sincero al tuo cuore, le finzioni rituali e i costumi piumati, le gabbie d’argento e le fughe di perla. Il deserto disteso su dune di villaggi in fiamme, utopie incendiate, ancora il movimento, ancora la quiete, non c’erano più domande che lei mi avesse posto, perché tutte le risposte che le avevo regalato si erano addormentate fra lenzuola di sospiri e rinunce. Rimanevo ancora seduto a guardarla, poi si sarebbe alzata, in un attimo di bellezza e smarrimento e io l’avrei seguita, con passi leggeri, perché sapevo che mi avrebbe portato con lei, in tutti quei luoghi in cui la meraviglia di perdersi sarebbe diventata reale.

lunedì 16 dicembre 2019

Spirit Horse

Don’t take responsibilities for today and see how it goes - suggerisce Shivam in una parentesi di quiete sonora, dopo che i tamburi hanno smesso di battere e le persone nel Red Temple hanno finito i loro esercizi di respirazione forzata, breathe control sussurra una donna seduta in penombra mentre accarezza un bastone di legno dalle proporzioni falliche.
Ci sono state danze ed estasi e stati di alterazione progressiva, espansioni luminose della coscienza, i bordi degli oggetti che cominciano a muoversi e incresparsi, il cuore si fa più leggero e permeabile alle emozioni, ancora una volta la sensazione di essere attraversato dalla vita, di non essere altro che un passaggio che i miei polmoni aprono e chiudono, le parole come suoni inarticolati, la natura come linguaggio sinestetico. 
Ho camminato lungo le sponde di un fiume, mi sono seduto e spogliato, ne ho osservato l’acqua e il mio riflesso tremolante sulla superficie, ho meditato su quei fluidi movimenti, mi sono bagnato e poi ho ricoperto il mio corpo di argilla, la mia pelle aveva delle sfumature fra il grigio e l’azzurro, ho accolto il sole, ho accolto l’aria, ho accolto il cielo e la terra, mi sono chinato e ho baciato i piedi di una donna che la mia immaginazione trasformava in una divinità orientale. 
I richiami dei corvi che echeggiano nel sogno estivo di una vallata, poi l’alzarsi dei ritmi tribali, un’architettura invisibile di strutture di percezione auditiva sincopata, geometrie mentali di percussioni primitive, le conchiglie, le piume multicolori di uccelli ormai estinti, collane di denti di animali svaniti dal mondo, tutto appariva e si dissolveva in momenti imprecisati del giorno e della notte, poi eravamo seduti attorno a un fuoco, bevendo sorsate di pozioni psicotrope, masticando liberty caps, ascoltando la voce di chiunque avesse una storia o un’utopia da raccontare, perché lo spazio del reale era stato assorbito da quello della fantasia, che ne ricostruiva, momento dopo momento, confini e possibilità, lasciando così le ombre libere di muoversi dalla loro origine.

Ho guardato le stelle e le stelle unirsi fra di loro, fino a quando l’intera volta celeste non è stata altro che un affresco scintillante popolato da strane figure mitiche, ecco il momento stesso in cui abbiamo creato i nostri dei, let the celebration begin - ha urlato Joe in un’esplosione di gioia e sudore, un corteo di corpi in trance selvaggio ha percorso territori psichici inesplorati, c’erano grida e canti e battiti e colpi, salti e convulsioni spasmodiche del cuore, poi i gesti codificati di antichi ed ebbri rituali pagani, le mie risa che distruggevano le cattedrali del peccato e del perdono, ogni volta che le divinità femminili, con uno schiocco di frusta, illuminavano di erotico candore la maschera esultante del mio volto trasfigurato dal piacere e dal dolore.

martedì 10 dicembre 2019

freewheelin' #50

Intellettuali polacchi in fuga da tundre messianiche, il teatro di Grotowski allestito in capannoni segreti, gli attori ingerivano funghi allucinogeni prima di ogni rappresentazione, le parole sottratte e le immagini sessuali mancanti, i giorni passati sulla spiaggia di Newport Sands nascosti fra le dune, le miriadi di scintille sulle onde, le morbide linee del paesaggio, la delicata mano del Grande Pittore, gli echi mattutini di visioni primordiali, gli elementi naturali in combinazioni poietiche, l’origine dei rituali, uomini in costumi piumati, nudi e danzanti, io e Luca in macchina, andando chissà dove, riunioni oniriche di gruppi adolescenziali in subbuglio, i volti invecchiati di vecchi compagni di scuola, gli itinerari nel subconscio di una città intrappolata in un eterno crepuscolo, le erezioni che l’alba trasformava in piloni dell’alta tensione, le file immobili di macchine abbandonate su autostrade deserte, i contorni tremolanti dei palazzi in lontananza, il caldo riverbero di linee geometriche sul punto di sciogliersi, gocce di asfalto squagliate nel tempo, cortocircuiti di identità represse, i nuovi documenti, la vita clandestina, alcuni di noi erano fuggiti, altri si erano perduti nei propri templi di psicosi compulsive, i laboratori e le cavie del masochismo contemporaneo, centinaia di celle in file algebriche elettrizzate, gli scienziati moltiplicavano i livelli di interazione e sofferenza fisica, demoniache invenzioni parallele, le grida si trascinavano inermi lungo pavimenti di sudore ghiacciato, le foto quadrate di teste mozzate, chi eravamo, chi saremo, niente altro che algida putrefazione.

lunedì 9 dicembre 2019

dream #91

Feste notturne in piscina, alcolici nel sangue, inviti non trovati, discussioni all’entrata e scambi di identità. Le domande di mio padre, in macchina, cercando un parcheggio, guidando senza patente. Provo a rubare del cibo dagli scaffali di un supermercato, una vasca da bagno pubblica sistemata in una delle corsie. Eleonora è seduta davanti ad un computer portatile con un bambino in braccio, si gira per parlarmi quando si accorge che sono entrato nella stanza. Passo delle giornate con Jasmine in luoghi di cui non ho mai avuto memoria. Le passeggiate con Marco lungo strade un tempo familiari. Un enorme paracadute che pende dalla palma nel cortile del palazzo dove vive mia madre. Il rumore di una macchina che si allontana. Le parole di una donna sulla soglia di un nuovo giorno.

martedì 26 novembre 2019

Bryn y Blodau #12

Lettere dal passato, sgomberi imminenti, uffici governativi a due piani, connessioni telepatiche con i membri di organizzazioni psichiche sovversive, i campi di addestramento trascendentale nascosti nella giungla peruviana, avremmo aggiunto nuovi punti sulle nostre mappe cognitive, diceva pacatamente un curandero seduto su un pavimento di terra e polvere, nuovi luoghi segreti per le nostre cerimonie, gli sciamani del terzo millennio si stavano preparando, ci sarebbe stata una rivoluzione nel cuore, con danze e canti e uomini appesi per i capezzoli ai rami di alberi centenari, l’energia che nasceva in centri colorati e pulsanti e si diffondeva nel corpo, i discorsi, le donne e le loro lacrime, la pelle, i capelli, le preghiere, i rifugi sotterranei, nel subconscio, nei territori astratti di creatività deviate, gli spazi vibranti di un sogno, nel quale mi spostavo e nel quale finalmente mi ero fermato a vivere, trasformando le strutture morbide di realtà parallele in perimetri di fluida incertezza, ogni cosa mutava, svaniva, si ripeteva all’infinito, cambiata, ingannevole copia di ciò che la aveva preceduta, ogni respiro poteva essere l’ultimo, sorella mia, bisognava essere pronti, a lasciarsi il mondo dietro, così come lo avevamo sempre conosciuto, un film di desideri e illusioni, un gioco di ombre ed echi, gli attimi di lucidità, la chiarezza interiore, le direzioni che avremmo scelto per arrivare dove non avevamo mai immaginato di farci crucifiggere, le spie che mi guardavano da dietro la tua testa piegata, lo spaccarsi delle nuvole nel cielo, le esaltazioni sulfuree, gli antichi rituali in contrasti cromatici di piacere e dolore, le zone inesplorate di illeciti continenti orgiastici, le droghe e le tecniche di manipolazione tattile, atti di masturbazione forzata, gemiti e agonie, le accuse dei sentimenti, le prigioni segrete della nostra memoria.

lunedì 25 novembre 2019

senza titolo

ed era maggio e ci stendevamo su coperte e pelli di bisonte e la terra era sotto di noi e la sentivamo fremere nei nostri corpi abbracciati, affondavo il mio volto nei suoi capelli e poi lei piano si girava e apriva le palpebre socchiuse e osservavo nei suoi occhi un universo di meraviglie e sfumature lucenti, il suo mondo, la sua vita, una timida ragazza che scopriva l’amore, una donna anziana che rideva in disparte del suo cedere ai piacere dei sensi e il tempo, il tempo che ho visto scomparire e fuggire lontano, in ore che non avrei più potuto riconoscere se non dalla misura dei miei respiri, ormai così espansi da assorbire gli alberi e le rocce e i canti festosi degli uccelli e il richiamo delle nuvole e le sinuose carezze del sole e lei era ancora addormentata sul mio petto, la testa che si alzava e abbassava al ritmo dei miei polmoni, il quieto smarrirsi di tutto quello che abbiamo sempre creduto di essere, le mie dita che scivolavano piano fra le sue linee e i segreti che rivelavano, in un giorno perduto di primavera che ancora mi fiorisce dentro.

venerdì 15 novembre 2019

Newport Sands

Sentieri sinuosi, serpenti di sabbia, dune mosse, le scie di fuoco nell’aria, la realtà in movimento, oscillazioni psicotrope, il vino, le birre, le memorie rinchiuse in clessidre rampicanti, giardini pensili in caduta libera, associazioni e deviazioni, i corpi nudi fra le onde, le scogliere luminose, la linea dell’orizzonte sulla quale il sole si schiaccia in un morbido tramonto, circonferenze esoteriche tracciate sulla sabbia, gli aquiloni volteggiano lungo traiettorie psicotiche, rumori plastici e metallici, ipocondrie vegetali, carene, ancore, le storie dei marinai perduti, morenti flagellazioni estatiche, punizioni, latrine e oscenità latenti, lei che apre la bocca, gli occhi bendati, la punta del mio cazzo che scivola dentro le sue labbra, la lingua che saetta incontrollata, l’energia sessuale traccia percorsi di frustrazione e piacere, il suo culo poggiato sulle mie palle, ci abbracciamo e ci addormentiamo, l’impulso improvviso di un’erezione, i pensieri sfumano in colori chiari, le foglie e l’erba che ondeggiano in sinfonie visive, i suoi capelli su cui facevo scivolare le mie dita, mi sentivo ancora un ragazzo accanto a lei,  incomprensioni e cadute, una danza di attimi che finiranno dispersi fra sottili strisce di luce, la penombra, il suo calore, la stanza in cui sei tornato, quella in cui adesso ti trovi, le vie di città sciolte nel bianco dell’estate, gli appuntamenti dimenticati, i colloqui d’ira e rancore, i volti, le facce, le espressioni costruite da maschere meccaniche, fisionomie grottesche, carnevali, storpi saltellanti ebbri d’assenzio, parcheggi privati seppelliti sul limitare di metropoli nascoste dai fumi di industrie vaganti, le mine inesplose, le bombe addormentate su inesplorati fondali oceanici, echi e misteri, solventi chimici come trucchi di un inferno estetico, gli stimoli elettrici, le nazioni in rivolta, il tempo che assolve ogni nostra possibile condanna, giudizi sospesi, giardini morali pensili, lacrime e insicurezze, progressioni emotive eseguite su sintetizzatori sintetici, lo sguardo vacuo di un assassino annoiato, l’accadere di un gesto, troverai una ragione, prima o poi, per lasciarti tutto alle spalle, raccontami di te, degli anni e delle guerre, di ogni amore che le tue gambe aperte hanno conosciuto, di ogni carezza che il destino ti ha negato, delle tue sigarette rollate a mano, delle tue preghiere davanti a un fuoco che sentivo ardermi nel cuore.

giovedì 14 novembre 2019

Bryn y Blodau #11

Crisi isteriche notturne, ketamina in circolo, risate psicotiche come echi di frasi spezzate, corrosioni neuronali, cortocircuiti sinaptici in cervelli alterati, lo spazio circoscritto da un’avanguardia rurale, maschere e travestimenti, gli enormi amplificatori, le gigantesche casse, le vibrazioni sonore, le apparecchiature elettroniche, il giorno e la notte e il loro sovrapporsi, il continuo vociare, le scie bianche dei pensieri, i cerchi di fuoco, gli equilibristi della psiche in erezioni circensi, circoncisioni e circonferenze illusorie, le geometrie cognitive tessute nell’aria, i cessi di legno, le teste di pesce che parlavano da vasche di immaginazione privata, deprivazione e depravazione, toccheremo ancora il fondo, disse qualcuno, poi le letargiche attese nascosto sotto coperte e pelli di bisonte, le pianure selvagge di luoghi mai esistiti, le interminabili discussioni con Ian, le bolle di pensiero, una dentro l’altra, scatole cinesi e bambole russe in estasi sessuali da rivoluzione bolscevica, non c’è via di uscita e nemmeno d’entrata, disse sogghignando un uomo dai baffi a manubrio, poi fughe e biciclette smarrite su strade in cui l’estate non sembrava mai terminare, mio padre e mia madre ancora in viaggio oltre ogni mio possibile sentimento, ci saremmo scritti e rivisti nei sogni, ci saremmo lasciati andar via, i nuovi incontri annulleranno il tempo e il suo ciclico danzare, stretti l’uno all’altra, io e Samara, attraversavamo superfici epidermiche e sentimentali, ci sorridevamo, ci ignoravamo, ci abbracciavamo di nuovo in una folle intensità di azioni ed emozioni sul palcoscenico della sua casateatro, una donna era un vortice che lasciava il mondo in perenne rotazione, attrazioni e repulsioni, planimetrie agricole rivoluzionarie e guerriglie spirituali, red path, canti indigeni, numerologie cabalistiche, gli alberi fluttuanti in realtà parallele, identità multiple, lo scrittore era qui, la penna e il taccuino nero e sarebbe stato ancora lui l’origine e la fine di ogni parola amata e perduta.

mercoledì 13 novembre 2019

freewheelin' #49

Berlino città distrutta, dai sogni grigi di topi in divisa, una stanza sotterranea di un albergo metropolitano, parlo con un ragazzo mentre siamo seduti nei resti al neon di un liquido loungebar, gli chiedo dove posso comprare un pò d’erba e delle pasticche, lui ha i contatti, roba buona, a quanto sembra. I viaggi sotto la superficie di cemento armato e pelle coperta di latex nero, il disperdersi del  fragore delle bombe cadute da bocche dementi, i fantasmi di guerre e padri che inneggiavano a vittorie perdute. Seguivo alcune persone, forse dei clandestini, fuori da un cimitero c’erano incontri segreti, scambi di identità sessuale, ipotesi di guerriglia urbana, poi nelle aule fumose di scorregge oppiacee un manipolo di studenti dell’università balinese discuteva delle cittàstato, delle divinità mesopotamiche, di agricoltura primitiva e nomadismo, si lasciavano offerte di cibo sui piatti sporchi della mensa sumerica allestita in una darkroom abbandonata, i circoli di autocoscienza e autorassegnazione, le preghiere e i feticci, statue senza braccia violentate in attimi di estasi da primati arrapati, gli straccioni travestiti da leader religiosi con tuniche e cravatte abbinate, il cristianesimo ci ha rotto i coglioni, imprecava un uomo nudo nel mezzo di una strada vuota, duemila anni di queste cacate fuorvianti e ancora ‘sto cristo appeso a una croce, le sirene delle autoambulanze in lontananza, le squadre antisommossa in fila lungo marciapiedi sgretolati dalle dita dei piedi di folle in tumulto, pazzia ovunque, pazzia di sopra, di sotto e nel mezzo, ce la faremo mai ad evolverci? A estinguerci, a sterminarci, a eclissare un’ennesima era, ad attendere che la nostra civiltà vada distrutta? Macerie, cumuli di macerie, templi in rovina, le giovani vergini stuprate da sacerdoti con cazzi equini, le colonne spezzate, le ombre del desiderio svanite nelle eco dei giorni, anni di piombo, millenni di polvere e stelle oscurate, celle di contenimento psichico, le pillole bianche, il simbolo fluorescente di un triangolo, dee sintetiche, amplessi scintillanti. 

martedì 12 novembre 2019

dream #90

Avevo parlato con qualcuno del mio ultimo romanzo, di tutte le pagine che avevo scritto negli ultimi tre anni e che probabilmente nessuno avrebbe mai letto e poi io, Ariel e Lorenzo stavamo suonando la chitarra ed eravamo invecchiati e un volto, sorridendo, ha detto che assomigliavamo a Crosby, Stills and Nash e poi c’eravamo io e mio padre, in una stanza, a raccontarci storie e Lynn e Julian, su un palco, a recitare poesie incompiute e poi la casa di mia madre, il portone aperto e una figura sconosciuta che non voleva lasciarmi passare, la luce dei giorni che ho dimenticato, quella meravigliosa del presente, i suoi riflessi negli occhi di un’ennesimo viso che lo scrittore trasformerà nelle melanconiche sfumature di un ricordo perduto.

domenica 10 novembre 2019

Bryn y Blodau #10

Piani di guerriglia alimentare, onirica ed erotica, campi coltivati nascosti fra le colline ondulate, le piantagioni di marijuana e oppio, le tute mimetiche indossate da Keith nelle giornate di grigiore e desolazione, gli incontri clandestini, i gruppi armati di disperazione e miseria, gli atti rivoluzionari disposti in ordine casuale nelle militanti menti da droghe alterate, sostanze psicotrope, sintetiche, polveri chimiche, laboratori allestiti all’interno di baracche isolate nei boschi, le reti di contatti, i nomi in codice, le previsioni apocalittiche di Ian, il suo umorismo nero, i teepee innalzati nella notte, i sentieri misteriosi dell’universo attraversati da stelle cadenti, le tue preghiere, le tue lacrime, le maree dei ricordi che risalivano lungo terre sconosciute, uomini di potere attendevano il nostro arrivo in abitazioni circolari che reinventavano la geometria piana attraverso teoremi indotti dalla mescalina, poi deliri suburbani nei viaggi orizzontali da stazione a stazione, le memorie confuse di anni trascorsi nella metamorfosi dei metalli pesanti, del corpo e del pensiero di una farfalla a forma di frattale danzante, gli appunti, i taccuini, i vestiti strappati, le false identità, le fughe, i ripari, le storie custodite nel cuore, quelle stracciate, quelle ripetute, gli schemi di stordimento visivo, gli schermi a rinchiudere lo sguardo in bisogni irreali, le crisi, le astinenze, le telefonate in francese, la scrittura fiorita dettata dal subconscio, i diari dei giorni perduti, le onde silenziose, le proteste mute, gli spazi sonori che qualcuno ancora disturbava con grida e imprecazioni infantili, i codici sovversivi, i calendari maya che svelavano le date esatte in cui consegnare il mondo e la nostra razza alle fiamme, le bombe inesplose nelle strade di metropoli abbandonate, le deflagrazioni fognarie delle nostre coscienze in avanzato stato di psicoputrefazione, città di labirintiche biblioteche stordite, cani al guinzaglio, labbra spaccate, le botte, i calci e i pugni, vetri rotti nelle finestre che la giovinezza aveva aperto e poi abbandonato, le fabbriche diroccate, l’immagine roca di un urlo, una bandiera divelta, le folle senza lavoro, i miserabili che laceravano i veli di sporcizia che ricoprivano i loro corpi deformi, gli inganni dei secoli e dei loro falsi nomi, le bugie di propagande inventate da folgoranti mercanti di gloria, i volti enormi, le statue decapitate, il flusso delle parole, il rincorrersi dei sussulti dell’anima, un domani mi ritroverò lontano da te e dal tuo letto disfatto, una resa, un ultimo orgasmo, i colori dell’alba, il rumore della pioggia, quello che resta della tua pelle nascosta, il suo odore, il modo in cui mi hai insegnato ad amarti un istante prima di addormentarmi nell’abbraccio di un’oscurità femminea e suadente. 

mercoledì 30 ottobre 2019

Bryn y Blodau #9

Terapie mitopoietiche del Dottor Ballard, accumulo di energia sessuale e sogni, le storie frammentate dalla mente, gli archetipi narrativi, gli oggetti sfuocati del desiderio, polluzioni notturne in ampolle di saliva e sperma, l’Alchimista e le sue capre, la Montagna Sacra nascosta dai veli di nubi orientali, messaggi criptati dalle banche della Coscienza Sotterranea, palazzi grigi, geometrie metropolitane in movimento, periferie londinesi di pioggia e droghe suburbane, la polvere azzurra e i suoi effetti, i progetti dinamitardi di Anthony, i suoi congegni elettrici esplosivi, le prove di insurrezione psichedelica, costruivamo gruppi di ribellione lisergica, gli enormi amplificatori a bombardare coscienze sul punto di aprirsi e modificarsi per sempre, non ci sarebbe stato ritorno scriveva Ian su un pezzo di carta prima di bruciarlo in un fuoco di lingue purpuree, espansione, espansione, urlavano in estatiche proteste gli studenti in rivolta dell’Università Balinese e se tutto fosse solo una creazione della mia immaginazione non era altro che il titolo di un seminario per scimmie e matricole arrapate, scenari pornografici nelle classi di astinenza e masturbazione, sacerdotesse celtiche scrutavano con occhi glaciali gli uomini ammanettati ai loro letti di piacere, i liquidi gocciolanti, i lenti orgasmi, inseguiti e poi lasciati esplodere in urla di luce e frastuono supersonico, traiettorie aeree di erotismo metallico, gli elicotteri della psicopolizia volteggiavano come enormi insetti affamati sulle verdi vallate oniriche, in cerca di piantagioni clandestine, gli alberi in fiore a nascondere amori fuggitivi, il ripetersi delle azioni pericolose, il disintegrarsi tossico di quelle nocive, linee, lettere, perimetri, formule fisiche alterate in ambulatori fatiscenti, alambicchi, provette, gas esilaranti, composizioni chimiche deviate, sintesi psicosomatiche, liberatevi dalla logica e ascoltate le voci che non esistono era la scritta che appariva nei cessi di una stazione di servizio ai limiti del deserto di Atacama, il biglietto lasciato cadere su un pavimento di privazioni dalla mano tremante di uno scrittore suicida, cosa accadrà dopo? Cosa accadrà adesso? Sospensioni cromatiche dei colori dell’alba, colpi di frusta a venire, cavalcami impavida in campi di gloria femminea, nuda e orgogliosa, i tuoi capelli di vento, indomita bellezza, madre perduta, figlia mai nata, figura danzante, musa addormentata dal profilo lucente di perla e sudore. 

lunedì 28 ottobre 2019

Bryn y Blodau #8

Le scie bianche e lucenti nell’azzurro profondo del cielo erano linee che congiungevano due punti sconosciuti sulla mappa mentale del mondo. Partenze e arrivi, decolli e atterraggi, gli spazi e i tempi sospesi di un aeroporto del passato. Mi piaceva arrivare in largo anticipo, prima del volo, sedermi da qualche parte in penombra, a bere birra o gin tonic, a leggere qualche pagina di un buon libro, a scrivere sul taccuino nero, a scattare fotografie di superfici e materiali, a fantasticare, ad assopirmi nel calore delle grandi finestre con i vetri oscurati.
I ritorni da Amsterdam, quelli ancora da compiere. Nel mio cuore c’era la strana certezza che, in un modo o nell’altro, sarei andato avanti senza più voltarmi indietro e che Roma sarebbe diventata un ennesimo arrivo, una tappa intermedia di un viaggio che era ormai il mio vivere.
Le strade, le città, i volti che apparivano nei sogni, in ruoli diversi, in vecchie abitudini, in prosaiche alterazioni, speravo che la maggior parte di quelli che mi avevano conosciuto si fossero finalmente dimenticati di me, le scie bianche nel cielo, le forme luminose di enormi uccelli metallici che uomini primitivi  avevano disegnato sui muri delle caverne del subconscio, le immagini di nuovi luoghi, misteriose esistenze che mi stavano attendendo, i miei giorni non erano altro che immersioni in oceani di pura immaginazione, poi ridevo, dentro di me, una volta seduto sulla calda sabbia del presente, di tutto quello che mi capitava, delle emozioni che ancora mi colpivano, dei miei bizzarri desideri, delle fantasie erotiche, lasciavo ogni cosa disperdersi nel mio cuore, i pensieri svanire dalla mente, i bisogni sgocciolare nella terra umida e bagnata.

C’era un altro me stesso, in questo preciso istante, seduto nella sala d’aspetto di un aeroporto del futuro, un bicchiere di vino bianco ghiacciato in mano, gli occhi protetti da lenti sfumate, la valigetta nera accanto alle gambe, la precisione dei dettagli è quella che è sempre mancata alle sequenze oniriche sospirava il regista e poi dissolveva il primopiano del mio volto con una ripresa aerea di una città mai conosciuta, sarò ancora qui, a perdermi nell’asfalto della miseria metropolitana, sarò ancora in fuga, fra alberi, fiori e misticismi acidi, le pietre su cui sono inciampato, quelle che ho afferrato in un pugno e scaraventato lontano, quelle che ho tenuto strette fra le dita prima di addormentarmi, gli ostacoli che la vita mi ha regalato, perché ogni sfida diventasse nei suoi caotici intenti un’indomita dichiarazione d’amore nei confronti dell’esistenza stessa.

venerdì 20 settembre 2019

Bryn y Blodau #7

Le persone venivano, si fermavano e poi scomparivano, Samara, i figli, l’ombra di Steven, gli amici, tanto che avevo iniziato a chiedermi se tutti loro non fossero altro che personaggi inventati dall’immaginazione dello scrittore, lui era sempre accanto a me, seduto poco distante, silenzioso, a osservare e prendere appunti. 
La natura tornava a germogliare, si trasformava, diventava giorno dopo giorno più ricca e complessa, nelle forme e nelle loro manifestazioni di luce e colori, pioveva, c’era il sole, le gemme cominciavano a dischiudersi e i rami spezzati si lasciavano morire, le storie narrate nei sogni, quelle nei libri, la casarotonda da sistemare quotidianamente, i giochi dei corpi, quelli dei bambini, le maschere da indossare e poi buttare via, una messinscena dopo l’altra, le assi di legno del palco, i punti di vista sferici sulla circonferenza di un teatro di improvvisazione totale, in cui era la vita stessa ad essere protagonista, con la sua frenesia, le pause, gli atti d’amore e rabbia, quelli di violenza, i gesti di tenerezza, la compassione per gli altri, mi muovevo ancora in bilico fra di loro, la porta del cuore appena socchiusa, giusto quel poco, perché i bagliori del dolore illuminassero ancora i miei sentimenti e poi le maree dei ricordi, gli sguardi, le parole dimenticate, le emozioni, superfici soffuse di vana consapevolezza, l’importante non era capirle ma sapere scivolare su queste onde di improvvisa rassegnazione, arrendersi ad esse, accettarle, farsi attraversare, ridisegnare con le sfumature dell’infanzia tutti gli inganni che gli adulti ci avevano insegnato, stavo per compiere quaranta anni senza avere nessuna idea di dove mi sarei trovato domani, sapevo ancora accarezzare le linee del tuo viso, quelle di quando sei stata ragazza, quelle di quando invecchierai, gli anni che le hanno tracciate, qui e ora, in questo preciso istante ci sono rughe di malinconia e increspature di gioia sul tuo volto, sapevo ancora perdermi nei tuoi capelli, nei tuoi occhi, in quello che racchiudevano e sapevano mostrarmi, nelle lacrime, nei sorrisi, nei giorni che svaniscono e trasformano il nostro passare in bellezza.

giovedì 19 settembre 2019

Bryn y Blodau #6

Buie sale cinematografiche del passato, i volti decrepiti di attori dimenticati, il fumo delle sigarette turche in spirali orientali attraverso il cono di luce di un proiettore oppiaceo, qualcuno mi passa una canna, poi una lettera a cui non risponderò mai, le famiglie allargate che nessuno aveva più rivisto, il fuoco acceso sulla quieta riva di un fiume, i movimenti delle fiamme e quelli sulla superficie dell’acqua mi sembravano simili, c’erano infinite corrispondenze che giorno dopo giorno andavano scoperte e lasciate libere di scorrere nella mente, per ritrovare arcaiche forme di pensiero che il linguaggio e la tecnologia avevano usurpato e quasi distrutto. 
Samara accende la pipa e benedice la vita e quello che essa racchiude, dalla nascita alla morte, il suo volto che attraversa tutte le fasi di un’esistenza, gli anni e i cambiamenti, il suo respiro, il suo corpo, la luce dell’alba che ci raggiunge sul letto nel quale siamo ancora abbracciati e poi vallate, alberi, il cielo e i suoi colori, le foglie e  i fiori che tornano a sbocciare, la terra, la sua meraviglia e la mia, ogni volta che la osservo, ovunque, intorno, dentro di me, nella pelle, in ogni possibile percezione, in ogni minima creazione della mia fantasia, l’immaginazione al potere avevano urlato studenti rivoluzionari incazzati e impazziti ed essa era qui, in questo momento e in quello che lo avrebbe seguito, nel tessuto visivo di nuovi fili d’incanto, le calde visoni pulsanti e geometriche indotte dal peyote, le piume che ciondolavano da un soffitto di legno circolare, in strutture architettoniche inventate dall’inconscio.
Tim e Bev fumavano hashish, parlando e bevendo té nero davanti alle icone medievali di martiri e santi, Anthony discuteva in cucina di possibili utopie sociali da inscenare come rivolte urbane, le piccole isole di resistenza quotidiana, le oasi di stili di vita alternativi sarebbero diventate arcipelaghi di realtà parallele, avevamo ancora scorte di acido lisergico nascoste sotto le assi di pavimenti oscillanti, suggeriva Dye dalla sua poltrona di serpente, i volti di vecchi hippies sorridevano dalle crepe di tronchi centenari, saremmo ancora sopravvissuti, sembravano dire, in un modo e in quello che poi lo avrebbe completamente ribaltato, le nuove droghe elettroniche creavano dipendenze veloci e difficili da controllare, gli schermi sono ovunque, urlava Sarah, correndo nuda fra i boschi, diverse dimensioni cognitive, scarsa tolleranza, flussi di dati nocivi iniettati direttamente in zone inesplorate del cervello, i bambini e gli adolescenti erano l’obiettivo primario, avremmo controllato i loro giovani neuroni urlanti durante le crisi di astinenza, fantasticavano sadiche le Multinazionali del Pensiero Virtuale nei loro laboratori di depravazione sotterranea.

Ian studiava tecniche di difesa psichica nei suoi vestiti strappati e sporchi, lo scrittore prendeva appunti e creava teorie di sovversione dadaista, un urlo, la chitarra, i pennelli (su per il culo, gridava di gioia un equilibrista a cazzo duro), le tele, i materiali plastici, le penne, i quaderni, i tagli, le forbici, le fotografie, i disegni, le immagini, le sequenze, il suono, la poesia e l’ebbrezza, un’ultima parola, poi di nuovo nei boschi, un corpo esposto, radiante e raggiante, una figura fuggita da un’orgia dionisiaca, ubriaca e perduta fra i rami spezzati di sogni boschivi e risate d’argento di giovani ninfe danzanti.

venerdì 6 settembre 2019

Bryn y Blodau #5

Il dolce rumore della pioggia e le immagini di verdi vallate nascoste fra le foreste del Sud Est Asiatico, lo sguardo di Samara e quello di Michael, saluti silenziosi, viaggi in frammenti di spazio e tempo ricomposti in visioni oniriche, le divinità del Sogno annullavano leggi fisiche per dare sfogo a pulsioni creative danzanti, cerimonie private all’interno della circonferenza avvolgente della yurt, occhi verdi di antiche sacerdotesse celtiche, corpi sinuosi da venerare nascosti in tuniche di desideri proibiti, i movimenti ondulatori delle vertebre, il curvare erotico della spina dorsale, le calde vibrazioni di elettricità sessuale, le cavità dei muscoli come territori di carne inesplorata, i segni bianchi, gli incensi, le candele accese, le pelli distese sulle assi di pavimenti di legno ubriachi, i legami tribali, i richiami degli uccelli, l’alba e il tramonto che finivano per assomigliarsi nella luce e nelle sue sfumature, tutte le corrispondenze di forme e colori in cui la natura mostrava se stessa, sublimando l’infinito in dimensioni di stupore variabili a seconda degli stati di estasi di chi la osservava, scienziati e razionalisti avevano distrutto la magia di un mondo di puro mistero, in cui la meraviglia era ancora uno stato dell’essere e una sua maniera di esprimersi, purificavamo le nostre percezioni rimanendo seduti in circolo, cantando al ritmo cardiaco di un tamburo  palpitante, passando la medicina a chi era alla nostra sinistra, nuovi spostamenti in  macchina, nuovi e gloriosi scenari, Samara che raccoglie radici di Artemisia fra le dune sabbiose, io che la seguo incuriosito, attraversando con lei, ogni giorno, le fasi di un’intera vita, assaporandone i cicli, osservandoli, sentendoli rifluire dentro il mio cuore, i progetti che si accumulavano su tavolini polverosi, oggetti intagliati dalle dita di personaggi mai esistiti, c’era lo scrittore, seduto sul margine bruciato di una poltrona sfondata, a tessere i fili di parole dentro e fuori le sue storie da inventare, qualcuno fumava tabacco delle praterie, altri essiccavano funghi allucinogeni e preparavano pozioni per le notti di luna piena, le donne parlavano sottovoce e i loro discorsi diventavano accoglienti melodie, le lente processioni di simboli fallici fra le dita, le rughe, i segni di ogni giorno che ci ha mostrato chi eravamo, chi abbiamo creduto di essere, il fuoco che arde trasformando legna in calore, brace in cenere, morte in amore, accarezziamo i confini, oltrepassiamo le frontiere, la morbida pelle, i contatti segreti, riscopriamo la gioia di essere insieme nel momento stesso in cui la nostra felicità andrà perduta.

lunedì 2 settembre 2019

dream #89

C’era Ken, in piedi, da qualche parte e mi stava parlando, poi ero in macchina con David e ci stavamo dirigendo verso la cima di una montagna, lui ha parcheggiato in una strada in salita e il mio corpo pendeva in maniera incongrua dal sedile anteriore, le leggi gravitazionali sembravano essersi piegate a qualche strana magia esoterica, sono sceso dalla macchina e ho camminato e mi sono ritrovato in un corridoio in cui mi sono ricordato di essere all’interno di un sogno e ho pensato di volare e i contorni delle pareti erano quasi trasparenti e poi una piscina e una sensazione di calore e una ragazza conosciuta chissà dove che si è avvicinata e mi ha slacciato i pantaloni, mi ha preso il cazzo in bocca e poi è fuggita via piangendo, l’ho seguita fino ad una stanza, lei era ancora in lacrime, seduta su un letto, sussurrando che la mia cappella era troppo grossa per la sua bocca e allora l’ho guardata in maniera perplessa e me ne sono andato, lasciandola sola e ho vagato per una città senza nome, il rumore del vento, il profumo del palo santo, gli occhi di tenebra, i giorni, i sorrisi, gli alberi che mi salutavano muovendosi nell’aria, un ultimo sguardo al cielo, prima di smarrirmi ancora e ancora e ancora.

giovedì 15 agosto 2019

freewheelin' #48

Parcheggi di roulotte dispersi nel sole, riflessi di reti metalliche, corpi nudi, sudati e sporchi, bottiglie di gin, i ricordi della Spagna, i tossici di Orgiva, i miserabili alla ricerca di qualcosa di alcolico da bere, caravan abbandonati, resti di libri, indumenti, candele, carte del destino sparpagliate su tappeti rosicchiati da topi ubriachi, le farfalle dalle ali spezzate, il titolo di una canzone mai scritta, gli accampamenti indiani, i rituali, le preghiere, la lunga pipa e il tabacco, le immagini di un villaggio africano, i canti e le danze, le serrande abbassate in camere d’albergo letterarie, lo scrittore aveva uno sguardo assente mentre batteva velocemente i tasti sulla sua macchina da scrivere immaginaria, treni di lettere in arrivo, vagoni di parole, passeggeri mascherati da personaggi in fuga da chi li aveva inventati, le nuvole avevano forme oceaniche, il tempo era scomparso insieme agli orologi che lo avevano ingabbiato in segmenti matematici, intervalli e frazioni, guardavo le ombre muoversi e questo poteva bastare, avremmo creato teatri di lanterne magiche, avremmo ancora fumato l’oblio dei sogni dell’oppio, movimenti paralleli di pensieri e visioni, scambi ferroviari di rotaie psichiche, il nostro doppio correva accanto a noi, vicino eppure intoccabile, ci seguiva, curvava, si perdeva lungo l’orizzonte di rumori spezzati, la pioggia che batte su lamiere arrugginite, le porte oscure nelle stanze oniriche, qualcuno le apre, qualcuno le oltrepassa, ci saranno incontri in dimensioni psicospaziali oscillanti, una mano che trema, una voce che sussurra desideri svaniti, gli attimi sciolti su una scacchiera di inganni, le palpebre pesanti, le lente carezze e infine il disperdersi di ogni mia sensuale ed erotica illusione.

domenica 11 agosto 2019

Bryn y Blodau #4

I flussi neri dei pensieri notturni erano passati, svaniti nell’aria luminosa di una nuova mattina. Era rimasta una macchia bluastra sull’unghia del pollice della mano sinistra e un’attenzione speciale per i dettagli, soprattutto se si stava usando un martello per sistemare una porta squilibrata su sconosciute dimensioni organiche. Le foglie delle piante erano enormi, larghi ventagli di un verde scuro e ombroso, gli stemmi sfumavano fra il blu, il bianco e il rosso, pulsando lentamente. Erano queste le parti che utilizzavamo per la preparazione di pozioni psicotrope. Qualcuno aveva avvertito le autorità del Controllo Mentale e c’erano state perquisizioni e avvisi di sgombero e piani quinquennali di futura demenza senile e legislazioni medievali e antichi fasti burocratici in castelli di carte kafkiani e Samara guidava la macchina nella nebbia, quella delle colline e dei suoi pensieri confusi, ridendo, a tratti, ancora abbastanza stonata dall’erba, aprendo nuovi scenari narrativi che lo scrittore archiviava nella sua stanza dalla pareti elettriche, in attesa di possibili rielaborazioni creative, poi le cartelle digitali poggiate sul piano colorato di una scrivania invisibile, le immagini, i suoni, i filmati nascosti, c’erano le copie di infiniti mondi filmici all’interno di ogni schermo nel quale guardavamo, droghe visive a cui ognuno poteva avere accesso per mettere in scena la propria dipendenza oculare. Pioveva leggermente, quando ci siamo fermati alla stazione di rifornimento, sono entrato dentro per comprare del vino ma la proprietaria mi ha detto che non aveva la licenza per vendere alcolici, ho bestemmiato piano, nella mia lingua, poi ho osservato il riflesso di un corpo in uno specchio sulla parete, vestito come uno straccione, un vagabondo ed ero io e la donna deve essersi spaventata nel vedermi così conciato o forse era tutto assolutamente credibile e il mio personaggio reggeva la parte insieme al suo costume di scena, il regista sussurrava ad un collaboratore che ogni inganno era reale e che non bisognava aggrapparsi a finzioni soggettive della psiche, poi siamo tornati indietro, senza vino e nella casarotonda Samara ha suonato il flauto, una melodia che sembrava come nebbia leggera intorno al picco di una montagna cinese, sulla quale ritirarsi a meditare, un’aria musicale lenta e riflessiva, fatta di nuvole e alberi ancora spogli, mi sono sdraiato e l’ho ascoltata ad occhi chiusi.
Tutte le gabbie di pensieri in cui mi sono isolato, c’erano i sogni a trasformarne le sbarre in spazi aperti e lucenti, dove gli incontri inaspettati erano ancora possibili, i film onirici trasmessi nella sala cranica della DreamTv, dove non c’erano distinzioni fra lo schermo e ciò che vi veniva proiettato sopra, quelle immagini erano la realtà di un cinema privato e inaccessibile ad altri, mi sarei risvegliato in un luogo, un giorno, in cui nessuno mi avrebbe riconosciuto, le storie che avrei raccontato sarebbero svanite dalle labbra e insieme alle parole il mio corpo sarebbe diventato un doppio di pura e selvaggia immaginazione.

giovedì 8 agosto 2019

dream #88

Eravamo in una stanza e John stava suonando la chitarra, vedevo le sue dita muoversi veloci e creare accordi sconosciuti e George era seduto a gambe incrociate su un grande tappeto e parlava di meditazione e poi ha aperto una scatola ed era piena di piccole stecche di hashish e qualcuno, Valerio forse, ha rollato una canna e l’ha fatta girare e poi ero seduto in una tenda e dentro sono passate delle persone, una ragazza con un cavallo e poi sono arrivati Alessio e un suo amico e mi hanno chiesto se potevano rimanere e io gli ho domandato se avessero mai partecipato ad una cerimonia dell’altare della mezza luna e poi ero in piedi, in un’altra stanza e c’era dell’acqua sul pavimento e alcuni pesci che nuotavano e forse mia sorella, accanto a me, che mi poneva silenziose domande e  poi di nuovo vicino alla mia vecchia casa, in una zona d’ombra fra due colonne di cemento ho visto il viso di Claudia che mi osservava e allora mi sono avvicinato e le ho parlato e siamo entrati in un locale e c’erano Barbara e Cristina e qualcuno che suonava canzoni di tanti anni fa. 
Sono seduto sul tappeto e prendo la canna che George mi passa, faccio un paio di tiri, mi sdraio sulla schiena, questa musica, penso, esiste solo nella mia mente.

venerdì 19 luglio 2019

Bryn y Blodau #3

Un mondo grigio, di forme stilizzate, di stampe giapponesi in bianco e nero, le geishe sedute in posizioni rituali, i rami degli alberi si intrecciano in composizioni silenziose, fotografie monocromatiche, pellicole polverizzate dal tempo, i discorsi lasciati a metà, le parole annegate nei flussi dei pensieri, stanze di uffici dimenticati in cui ho ucciso giorni e mesi, gli anni passati che si trasformano in sequenze di immagini oniriche, una nave carica di simbolismi che solca un oceano di conoscenze fluttuanti, questa é la realtà diceva il vecchio uomo seduto davanti ad un muro, poi gli abissi della psiche, quelli dell’amore, ogni storia che abbiamo inventato per rendere fantastiche le nostre esistenze, le candele accese in cattedrali andate distrutte, le statue di divinità obliate senza più gambe, braccia o piedi da adorare, le mute preghiere, gli atti di sottomissione estatica, i fluidi movimenti che seguono le direzioni della rosa dei venti, il tempio di giada che si dischiude fra le tue gambe, le canzoni d’aria, gli arcobaleni di argilla, mani che plasmano il nulla in cerca di un significato tangibile, scie di rugiada sulle finestre dell’infanzia, eravamo punti immobili, vuoti e trasparenti, attraversati da un mistero vivente, lo spazio curvava e qualcuno lo colorava con suoni e armonie interiori, i richiami di paradisi ultraterreni, le tentazioni di quelli artificiali, le lunghe dita danzanti, pallide e nude, lo sguardo pieno di follia lunare, riportiamo ogni cosa nella sua dimensione originale, perforiamola, varchiamo frontiere che ci trascinino oltre i confini di quello che non abbiamo mai avuto il coraggio di essere, migliaia di profughi nei deserti dell’anima, chi accoglierà la nostra fuga? Chi ci proteggerà quando non sapremo neanche più pronunciare il nome del luogo da dove siamo venuti? Li vedo ancora i loro volti e il mio fra di essi, in improvvise e fugaci apparizioni, non è rimasto molto delle memorie scambiate, di quello che ho provato a costruire, l’abbandono e la sconfitta, perché, ragazzo mio, è nell’atto di umiltà di arrendersi che si radica e germoglia il fiore ancora dischiuso di ogni rivolta possibile. 

lunedì 15 luglio 2019

Bryn y Blodau #2

Un’alba che sorge da freddi tessuti onirici metropolitani, una macchina (da scrivere?) lasciata chissà dove, Maria che veniva a trovarmi, un castello da visitare, le rovine del passato, cumuli di pietre ad indicare direzioni svanite nel dischiudersi dei giorni, la pioggia cadeva e Father Tim benediceva la sorgente d’acqua di Bryn yr Blodau. Io, Samara e un gruppo di persone gli eravamo intorno, tutti fradici per il temporale che ci aveva colpito mentre lui spruzzava su di noi le sue benedizioni greco ortodosse, litanie sacre in antichi canti orientali, l’odore dell’incenso che bruciava, quello della mirra, le alte arcate di chiese mai visitate, il silenzio di preghiere rivolte verso nessun dio, Costantinopoli era nascosta da tappeti incandescenti, i fiori d’oppio, i misteriosi raggi energetici di sistemi planetari inesplorati, i libri trovati dentro bauli abbandonati, le iniziali di uomini scomparsi nei vagoni di treni diretti oltre le sterminate steppe della Mongolia, il magic bus parcheggiato accanto al gipsy wagon dove vivevo, Father Tim continuava ad intonare i suoi deliri messianici e apostolici, profeti scheletrici che vagavano impazziti in deserti spirituali, i richiami della montagna, vision quest, quattro, sette, dieci, quattordici giorni di digiuno e astinenza, i meravigliosi ricami dei paramenti sacri, porpora e oro, poi qualcuno ha fermato le parole e il tempo e tutto quello che ogni mito ha da sempre racchiuso e narrato, dentro di sé, la terra da arare, i semi da piantare, il ciclo della vita che osservavo, attimo dopo attimo, stupore dopo stupore, stagione dopo stagione, i millenni che solcavano l’infinito, non c’era nessuna differenza e non ci sarebbe mai stata, lo sapevano le stelle e le maree, gli occhi dei bambini, quelli delle donne, gli sguardi in cui tutto veniva detto senza che le labbra accennassero il minimo movimento, le mani ghiacciate, la morte che scrive, aspetterò la primavera in questo luogo d’incanto, fra le gemme e i sogni di una valle dimenticata.

venerdì 5 luglio 2019

Bryn y Blodau #1

Il diario scritto da un uomo vissuto dentro una carrozza degli zingari, le coperte alle finestre, la piccola stufa in un angolo, le pentole, le candele, i tappeti, il rumore della pioggia, gli alberi ancora spogli, un falco che volteggia nel cielo, i sogni, notte dopo notte, una seconda vita narrata in segmenti onirici, episodi di un film diretto dal subconscio, realtà parallele, giorno dopo giorno, i semi nella terra umida, i vermi, la legna da raccogliere, l’acqua e la sua purezza, una fonte, un sentiero, una casa circolare, i disegni, uno sciamano siberiano, il ritratto di un’anziana donna afghana, il temazcal, i cactus di San Pedro in vasi colorati, gli echi delle preghiere di altri popoli, diverse culture che danzano sulle assi di legno di questa dimora, mangiavamo con le mani, la sera, dopo avere preparato e cucinato il nostro cibo, le donne si riunivano nella yurt, una volta al mese, seguendo le fasi della luna e quelle del loro ciclo, cantavano e il tamburo batteva ipnotico, le storie che Samara raccontava ai propri figli, seduta su una vecchia poltrona sfondata di pelle rossa, facendoli addormentare, i ricordi di mio padre, mentre anche io la ascolto, in silenzio, seduto in disparte, i cesti appesi alle travi del soffitto, le piume di uccelli svaniti dal mondo, perché come loro anche noi siamo destinati a scomparire, tutti noi, a sfumare lentamente come la luce di un tramonto d’estate, la vita ci attraversa in un ciclico divenire, la terra è bagnata, le nuvole disperse, la pioggia ha smesso di cadere.

venerdì 17 maggio 2019

Brechfa Forest

I primi daffodils stavano sbocciando e il sole, quando appariva nel cielo, stava diventando più caldo e Tom e John Joe lavoravano insieme, bizzarra coppia da vaudeville postproletario, con le loro tavole di legno da inchiodare in stanze smembrate di fantasie segrete, i rumori stridenti delle seghe elettriche che stupravano il silenzio della mattina e quello degli alberi, nelle giornate in cui rimanevano immobili ad osservarci, in attesa che qualcosa che solo loro conoscevano venisse a trovarli. Bottiglie di vino e serate passate a bere e guardare il fuoco, i progetti di James, la sua musica di proiezioni architettoniche polidimensionali, i concerti in giro per l’Europa, i gruppi di poeti scalzi che si ubriacavano e declamavano versi nelle spiagge nude di versi sabbiosi, il montaggio di scene erotiche in un sogno di estasi sessuali, le immagini di un matrimonio mai celebrato, i cani che mi seguivano nelle mie passeggiate e se non erano loro sarebbe stato qualcun altro, i calci in culo continuavano ad essere un linguaggio universale, comprensibile da tutti, uomini, donne e bestie, i sentieri nei boschi, il dischiudersi delle percezioni, la luce che disegnava la realtà in incandescenti sinfonie visive, ogni fenomeno risplendeva di vita, dentro, fuori, intorno, ovunque. Rimanevo come sorpreso da così tanta sublime bellezza, presente in ogni molecola di materia vivente e non, la natura sapeva come insegnarmi di nuovo tutto quello che non avevo mai osato studiare o semplicemente dimenticato, i primi segni della primavera, un mirabile linguaggio da imparare a leggere e decifrare, con il cuore prima degli occhi, ero di nuovo un bambino, libero finalmente di muoversi nel suo personale universo di sorprese e incanti.

mercoledì 6 marzo 2019

freewheelin' #47

Ad occhi chiusi, le voci erano nuvole lente, la mente era il cielo, i respiri la luce, improvvisi movimenti sulle superfici, scatti visivi, fotogrammi sospesi di un film irrisolto fra realtà, ricordi e sogni, l’uomo vestito di bianco appariva in una finestra, davanti a una porta, una ragazza sembrava impaurita dalla sua presenza e poi i giorni che arrivavano a svegliarmi, uno dopo l’altro, come onde di un tempo continuo, i racconti che trasformavano le esperienze in qualcosa di unico e umano, perdevamo lavori, ruoli, gabbie e futuri plastificati per ritrovarci nel mezzo di una strada sconosciuta, senza piani, senza rifugi, solcavamo oceani di esistenze inventate, pianure di immaginazione al galoppo, poi una stanza improvvisa, le sue pareti dimenticate, le lunghe dita di una mano femminile, il loro contatto, sapevamo ancora come comunicare attraverso la pelle, gli sguardi, i movimenti del corpo, un linguaggio epidermico che diventava un codice di creatività sensuale ed erotica in attesa di un’interpretazione emotiva, tutto era di nuovo possibile, cancellavamo frontiere, frantumavamo confini, sospendevamo barriere in ipotesi di personaggi smarriti, nomi inventati sulle pagine di fumo di un romanzo mai scritto, bruciato ed amato, non c’erano più età a dirci come dividere le fasi della vita, continui passaggi, un ciclico ed irripetibile teatro di fluida folgorazione alcolica, lubrifichiamo i pensieri, lasciamoli tremare, inneschiamo brividi che esplodano in lucide rappresentazioni oniriche, disegniamo gli scenari di un subconscio ghignante, attraversiamo composizioni architettoniche in bilico sul confine della ragione, i canali criptati, i video che le anfetamine velocizzano in elettrocardiaci messaggi subliminali, inquadrature del mio corpo nudo nei boschi, estasi sessuali solitarie, gli alberi che  continuavano a chiamare il mio nome, sarei fuggito dagli orfanotrofi di asfalto e cemento per raggiungerli ancora, eravamo intrappolati in un gioco di specchi infinito, risveglio dopo risveglio, sequenza dopo sequenza, il regista è seduto nel suo impermeabile grigio e verde sulla panchina impolverata di una stazione ferroviaria invernale, un tossico gli chiede di autografargli il braccio con una siringa di tenace stupore, aspettami qui, sussurra l’attrice in un bagliore di momenti svaniti, aspettami qui, in un giorno di cui nessuno avrà memoria, abbracciami ancora, scena dopo scena, addio, dopo addio, abbracciami ancora, perché è in ogni separazione che vivremo il segreto ultimo di tutto quello che da sempre ci ha unito.

sabato 2 marzo 2019

Mwnt

Siamo andati in macchina verso la spiaggia di Mwnt, Justine al volante, John accanto a lei e io nel sedile posteriore. Lui è salito con una tazza di caffè nero ancora fumante in mano e io io mi sono seduto di dietro, dopo aver sistemato il mio zaino nel portabagagli. Siamo passati a prendere Laura, ci stava aspettando vicino ad una panchina, con il suo tamburo e un paio di buste con del cibo dentro. Laura si è seduta vicino a me e ha cominciato a raccontarmi di quando era venuta in vacanza in Italia con la sua famiglia, aveva quattordici anni e gli uomini già le ronzavano intorno, ho sorriso, ricordandomi di Lynn, poi ho guardato il paesaggio che si muoveva fuori dal finestrino.
Quando siamo arrivati alla spiaggia Mick stava prendendo le misure per il suo mandala, un regalo personale per il compleanno di Anne. Alcune persone erano sedute sulla sabbia o in piedi vicino a delle rocce, le vedevo dall’alto, dal parcheggio in cui ci eravamo fermati. Ho preso un sacco con della legna dal portabagagli, insieme al tamburo di Laura e mi sono diretto verso la spiaggia. Sono sceso per dei gradini e quando ho raggiunto le altre persone ho posato la legna e il tamburo vicino a loro, Emma era già lì, mi ha salutato con uno sguardo, poi lei e Justine hanno pensato al fuoco. Donne e bambini stavano aiutando Mick a terminare la sua opera con dei rastrelli, componendo figure geometriche che dallo spazio bidimensionale si spostavano in una zona mentale malleabile e fluida, muovendosi in spirali colorate nella mia immaginazione. Ero ad occhi chiusi, in quel luogo interiore intangibile e infinito e i suoni delle canzoni delle notti precedenti hanno iniziato ad arrivare, insieme a quei ritmi ancestrali nati dal silenzio, le calde e bianche incandescenze di energia vitale, Michael che intonava parole di antichi canti dimenticati, i colpi sull’enorme tamburo, le ripetizioni continue di parole senza nessun apparente senso logico ma allo stesso tempo capaci di esprimere in maniera così profonda intuizioni e sensazioni che si perdevano in un modo di percepire la realtà quasi scomparso, erano le melodie stesse che una natura selvaggia e incontaminata aveva insegnato agli uomini che l’avevano conosciuta, prima di smarrirsi negli inganni del futuro. E poi le voci nel buio soffocante del temazcal, il delirio guidato in una trance estatica di sudore e corpi fradici sull’orlo del collasso fisico, c’era la morte vicino ad ognuno di noi e non avevamo paura ad averla al nostro fianco, la musica infondeva coraggio ai nostri cuori e ci portava oltre noi stessi, per oltrepassare la soglia e poi rinascere nella notte, sotto le stelle e la luna e la pioggia che ci accoglieva come una benedizione divina.
Mi sono seduto sulla terra nuda e bagnata, sapendo bene che un giorno tutto questo non sarebbe più esistito, era un mistero e un dono quello di cui facevamo parte, un universo di innumerevoli e sconosciuti fenomeni uniti in maniera invisibile fra loro, in una danza di eventi che il tempo finiva poi per portare via con sé, distruggendone ogni traccia, ogni passo, come le onde che arrivavano a cancellare le linee di un gigantesco e meraviglioso disegno sulla sabbia, a ricordarci che nulla, nemmeno la bellezza, era destinata a durare.


giovedì 28 febbraio 2019

freewheelin' #46

Molecole subatomiche in estasi tossiche, porzioni instabili di chimiche sconosciute, sorrisi improvvisi di alcolizzati in cammino, le stazioni sbiadite stampate su cartoline di futuri dimenticati, una stanza in cui ero entrato aspettando che qualche misterioso individuo arrivasse, contatti telepatici in attesa di riscontri verbali, le scatole craniche disposte su un tavolo indiano, diverse qualità di funghi allucinogeni al loro interno, poi le camere semibuie di un ostello onirico, gli incontri e i dialoghi, le persone che cercavano tavoli liberi in cui sedersi e ancora tutti i momenti in cui la scrittura si impadroniva di me, i sogni e le parole e le voci che scivolavano nel vuoto, oscillazioni cromatiche di alberi e rami e chiome, personalità botaniche che il vento rendeva visibili, le porte che qualcuno apriva nella direzione sbagliata e rumori che squillavano in scintille di bicchieri vuoti, i baci che avevo dato a Rebbecca in una notte di alterazioni sintetiche, avrebbe ancora lasciato il dolore libero di narrarle le sue storie? Altre donne davanti a tele strappate, i pennelli gocciolanti sperma in mano, note musicali appiccicose e stagnanti, frequenze pittoriche in grumi di solitudine artistica, dame elleniche che si nascondevano in foreste di verde mistero, i lunghi capelli dai riflessi infuocati, Zoe dove sei finita? Raccoglievamo pietre sui confini del mare, io e Sarah, millenni di forme diverse che si inseguivano nella ricerca di una impossibile perfezione fisica, quaderni di appunti neri, ceneri raccolte in urne balinesi dalle sembianze feline, cumuli di rovine di civiltà perdute nella polvere e nell’oblio di ere proibite, gli occhi liquidi dei tossici di vetro, i riflessi aboliti dalle dittatoriali strutture di cemento dei regimi psicosovietici, reti di protezione emotiva come ragnatele di difesa isterica, le cadute, i salti mortali di atleti circensi dai crani rasati e i baffi a manubrio, tatuaggi, gli appuntamenti alcolici del sabato pomeriggio, ramispezzati, ossascheggiate, le direzioni oblique di strade ormai abbandonate, il regista che muove la macchina da presa verso l’ultima inquadratura del suo film, un treno in partenza e nessuno che arrivi.

sabato 23 febbraio 2019

Fachongle Isaf

La luna era rossa, allineata con Castore e Polluce, iscrizioni zodiacali in punti luminosi sui neri papiri dell’infinito, il piccolo fuoco brillava sommesso accanto alle nostre gambe incrociate, Emma e Justine cantavano, a bassa voce, quando John ci ha raggiunto e si è seduto vicino a noi. L’eclissi è passata in un tempo che non era più ordinario e strati di nuvole hanno velato il cielo e Emma ha suggerito di mangiare una manciata di funghi magici e l’alba si è affacciata ad est, rosea e lieve e allora ci siamo alzati e siamo andati nella capanna di John e lui ha messo altra legna nella piccola stufa di ghisa e Emma ha cominciato a preparare la colazione, eggs on toast e caffè nero, mi sono sistemato per terra, John mi ha passato un paio di cuscini, poi si è messo a spiegarmi la struttura della sua capanna, tre ennagoni sovrapposti che creavano tre spazi da sei lati ciascuno che ricordavano un trifoglio, John mi diceva che era stato ossessionato da pentagoni ed esagoni (il primo rappresentava la fisionomia femminile, il secondo quella maschile) quando era stato giovane, probabilmente a seguito di qualche esperienza lisergica, avevo pensato dentro di me, vedendoli ovunque e realizzando oggetti e progetti con quelle forme. Dopo aver dato un sorso di caffè dalla sua tazza e aver acceso una candela John si è messo a discutere con Emma e io sono rimasto in silenzio ad ascoltarli e guardarli, soprattutto Emma, la sua presenza mi era così familiare, come se la conoscessi da tanti anni e invece ci eravamo visti solo un paio di volte, riuscivo a comprendere alla perfezione i suoi gesti, a leggere i suoi sguardi, a indovinare i suoi pensieri. La prima volta che l’avevo vista, diversi mesi prima, era stato durante una cerimonia della mezza luna, in cui avevamo assunto peyote e ancora avevo nitide, nella mia mente, le immagini di lei che parlava, l’enorme sigaro di tabacco fra le mani, dentro il teepee, i primi raggi del sole nascente che le illuminavano il volto e ogni suo movimento aveva un’antica bellezza, un’arcana perfezione, ed è quello che le ho detto, prima di abbracciarla e salutarla nel parcheggio della spiaggia di Mwnt, mi ricordo così vividamente di te, le ho sussurrato, in quel mattino di parole e preghiere e luce e speranza improvvisa.

venerdì 22 febbraio 2019

senza titolo

volti
addii
silenzi
sguardi
fragili ombre
di memorie svanite
e poi le onde
e il tempo
i respiri
e i risvegli
le bianche mattine
di luce soffusa
e le palpebre
le ciglia
la tua pelle
gli occhi chiusi
i sogni
e poi tutti i baci
che ho dimenticato 
di darti
un attimo
un altro ancora
un attimo
e un altro

ancora.

giovedì 21 febbraio 2019

freewheelin' #45

C’era Francesco accanto a me, in un aereo, mentre volavamo verso un Paese africano e Flavia, in una classe, a rispondere a domande che nessuno le aveva rivolto e gli alberi intorno, i loro movimenti fatti di aria invisibile e fruscii, i rami che galleggiano nel vuoto e le improvvise giornate di sole e tutti i ricordi che continuavano ad arrivare come fossero la vita di qualcun altro, non una sola, a pensarci bene, ma centinaia di esistenze diverse che avevo attraversato, che erano apparse e svanite, i cicli degli anni, le maree degli eventi, era rimasto poco o nulla di tutte le mie speranze, delle aspettative, era stata un liberazione graduale, perché non c’era niente da ottenere, nessun traguardo da superare, nessun progetto da portare a termine, chi cazzo ci aveva insegnato a costruire il futuro quando a malapena sapevamo muoverci nel presente, chi erano stati i nostri maestri? Quali teste di cazzo ci erano toccate di avere davanti, in cattedra, a pontificare su tonnellate di stronzate inutili, se una rivoluzione andava fatta era quella di dimenticarsi di tutto, di fare una strage di idee malsane, esplosioni di gabbie concettuali, esecuzioni di modi di pensare catatonici, c’era ancora la mia ombra, da qualche parte, con una pistola in mano a mirare ai cervelli di quanti ci avevano fregato, c’erano ancora, da qualche parte, tutte quelle persone che mi sono illuso di amare, forse la mia sconfitta più devastante è stata quella di ammettere che  quelle marce di battiti cardiaci non sono state altro che un trucco della mia mente, povero coglione, ne hai fatta di strada per arrivare alla conclusione che non c’era mai stato nulla di veramente importante da considerare unico, perché ogni attimo, ogni particella subatomica di tempo era già perfetta nella sua solitudine, a quanti si sono abituati a una vita che non era loro ci saranno cortei di idioti a innalzarne la mediocre statura, a quanti hanno voltato le spalle al tedio e sono fuggiti e si sono precipitati nell’abisso e sono morti, annegati, scomparsi e dispersi, a loro qualcuno dedicherà parole di indomita bellezza, perché è nell’accettare la vita nella sua totale assurda meraviglia che risiede quel seme di speranza che qualcuno attende di veder germogliare nel dischiudersi degli sguardi di chi ancora sveglio ha finalmente imparato a sognare. 

martedì 19 febbraio 2019

freewheelin' #44

Le prove di uno spettacolo teatrale del subconscio, Hair in una versione sotterranea e sovversiva, una maschera mi fa entrare nella sala buia dove trovo un posto a sedere, poi  l’oscurità completa e una sensazione di caduta in movimento come se stessi precipitando dentro a un aereo, poi qualcuno afferra il mio corpo e lo muove da una parte all’altra, di nuovo fuori cercando di rientrare, una donna mi chiede di mostrarle il biglietto di ingresso, le strade familiari della mia città, una ragazza dimenticata che inizia a toccarmi il petto e a stringermi i capezzoli sotto la maglietta, siamo su un autobus, andando chissà dove, ci sono dei vasi che lascio sotto al suo portone, le centinaia di volte che ci sono entrato dentro per andarla a trovare (e a scopare, of course), la pioggia leggera e gli alberi dietro la finestra, immobili, in attesa, un cuscino orientale, le lenzuola rosse, le tele appoggiate a una parete, ci svegliamo da un sogno solo per ritrovarci in quello successivo.

domenica 17 febbraio 2019

dream #87

Camminavo per una strada, cercando di arrivare da Sofia, le mie ginocchia erano pesanti e facevo fatica ad andare avanti. Avevo lasciato la macchina da qualche parte, insieme ai soliti pensieri che mi preoccupavano, la patente da rinnovare, i soldi da prelevare, le persone che non volevo più vedere. Ero stato in un ufficio e avevo parlato con un uomo che non conoscevo anche se avevo avuto una sensazione di familiarità nel chiacchierare con lui, dovevamo essere a Roma, nel suo doppio onirico, in un futuro imprecisato in cui raccontavo il mio presente come fosse passato. Poi ero andato a pisciare e lo spazio del bagno era molto grande, la porta era socchiusa e fuori è passata una segretaria, mi sono riallacciato i pantaloni e sono tornato nell’ufficio, c’era parecchia gente, adesso e non trovavo più il mio cappello di lana (ne avevo mai avuto uno?) ho salutato l’uomo senza neanche sapere il suo nome, fuori, di nuovo le strade, ha cominciato a piovere, l’eco della voce di mio padre, andrò avanti in bilico fra questi due mondi, l’uno parte dell’altro, risveglio dopo risveglio, caduta dopo caduta.

mercoledì 13 febbraio 2019

Aberystwyth #14

Il posto che preferivo per scrivere era il Wetherspoon, il pub della stazione, di solito ci andavo di primo pomeriggio, ordinavo una pinta e poi mi sedevo in un angolo con il mio taccuino nero, vicino ad una delle porte d’ingresso, quella che dava sui binari, tiravo fuori la penna e la posavo sul tavolino, poi attendevo che loro arrivassero, le parole, le mie dolci amiche, mi sembrava di essere in un acquario, dal cui interno potevo osservare la vita che scivolava al di fuori, i volti delle persone che nascondevano storie che aspettavano solo di incontrare la mia fantasia, poi le mie dita le avrebbero trasformate in segni sul taccuino nero, in una danza ossessiva di frasi immaginarie. C’erano frammenti di discorsi e persone in piedi, in attesa che i treni arrivassero e partissero e il corpo di Claire, la sera precedente, mentre aveva iniziato a comunicare con me attraverso i suoi movimenti, era un linguaggio di seduzione che capivo perfettamente, mi bastava guardarla e percepivo che la faceva piacere essere all’interno del mio sguardo, come fosse l’inquadratura di un film di silenzioso erotismo, un documentario di emozioni private e personali e poi mi raccontava delle esperienze che aveva avuto con l’Ayahuasca, quando era poco più che ventenne, in un villaggio nelle foreste peruviane, c’erano due circoli separati, uno di uomini e l’altro di donne, il secondo che preparava la bevanda, poi l’effetto purgativo e lei che si trascinava da qualche parte per vomitare, mentre enormi pipistrelli volteggiavano ovunque, le visualizzazioni sonore psicotrope, sfere volanti, esperienze che, capivo bene, era alquanto impossibile descrivere in maniera logica, lo stesso problema linguistico si muoveva da qualche parte nelle speculazioni matematiche di Paul, mentre cercava di chiarire a sé stesso ipotesi sull’infinito e sui punti limite sulla superficie di sfere di pura astrazione, forse le stesse che Claire aveva visto rotolare nell’aria verso di lei, il gruppo di antropologi di cui anche il marito faceva parte che continuava i propri esperimenti con sostanze enteogeniche in nome di un’idea di ricerca che se ne fotteva altamente di qualsiasi interpretazione accademica, c’era l’accesso diretto a stati alterati di coscienza  e comprensione e canti e percussioni nella giungla che sarebbero stati in grado di svelare la realtà più dettagliatamente delle migliaia di libri scritti dai Culi Pesanti seduti nelle aule universitarie davanti a puttanelle (come quella asiatica alla mia sinistra, tacchi alti e gambe accavallate, eterna distrazione) dalle gonne corte e dalle unghie affilate. Prime ombre della sera, anticipazioni oniriche di quello che verrà,  abbiamo imparato che ogni giorno può essere l’ultimo, dobbiamo muoverci velocemente, il prossimo treno potrebbe essere il tuo, tieniti pronto, il domani appartiene all’ignoto.

domenica 10 febbraio 2019

dream #86

Ero in piedi, fra Claudia e Barbara e loro mi abbracciavano, c’erano altre persone intorno a noi e sembravano tutte felici di trovarsi lì, poi mi sono girato verso Barbara e le sue labbra erano così vicine che non ho potuto fare altro che baciarle, provando ancora quella meravigliosa sensazione di morbidezza.
Elisa era arrivata davanti al cancello della casa di Aphex, io ero in piedi, fermo, aspettando qualcosa o qualcuno, non l’avevo riconosciuta subito, perché in lontananza la sua figura era sfuocata, poi quando mi ha raggiunto siamo entrati dentro casa e siamo andati nella mia stanza. Mi sono svegliato disteso sul letto ed Elisa era in penombra, accanto al grande armadio di legno, sembrava arrabbiata e mi accusava di essermi addormentato davanti a lei, senza neanche averle parlato. Mi sono alzato e sono uscito e tutto era opaco e nascosto in una nebbia di ricordi sbiaditi. Ho continuato a camminare, senza nessuna direzione, nessun luogo dove andare, perdendomi ancora una volta in un oblio di sensazioni smarrite.

venerdì 1 febbraio 2019

...

"From the moment I met you, all those years ago, not a day has gone by when I haven't thought of you. And now that I'm with you again...I'm in agony. The closer I get to you, the worse it gets. The thought of not being with you - I can't breathe. I'm haunted by the kiss that you should never have given me. My heart is beating...hoping that kiss will not become a scar. You are in my very soul, tormenting me...what can I do? I will do anything you ask.
If you are suffering as much as I am, please, tell me."

Anakin Skywalker
Star Wars Episode II: Attack of the Clones

giovedì 31 gennaio 2019

Il clown (2007)

I soldi mancavano. L’aria della stanza era stantia. Nuvole azzurrine di fumo salivano in spirali verso un soffitto screpolato. Finestra socchiusa. Niente ventilatore. Sudore. Camicia appiccicata. Chiazze di colore più scuro sotto le braccia. Piedi appoggiati sulla scrivania. Bisogno di soldi. Bisogno di bere. Bisogno di scopare.
Rimanevo immobile. Fisso nei miei pensieri. Dissociato.

La cenere della sigaretta arrotolata cadeva sul pavimento. Vecchie mattonelle sule quali erano passate migliaia di scarpe. Chissà quanti avranno lavorato in questa stanza. Prima di me. Parlando di affari, omicidi, valigette da consegnare.
Una vecchia casa di produzione cinematografica.  
Una sede dimenticata di giornaletti pornografici.
Aria stantia e sudore. Il mio.

Presi una decisione e caricai la mia pistola mettendola poi nella fondina. Allacciata sotto l’ascella. Colore più scuro. Sudore. Presi il silenziatore. Pensai ai soldi. Ne avevo bisogno. Misi una giacca. Una qualunque. Un lavoro semplice. E sangue.

Arrivai al circo. Passò un aereo e il sole si mosse di poco. Gli artisti stavano provando. Non potevo permettermi il lusso del libero arbitrio. Io eseguivo un determinato ordine. Più era grossa la somma che mi offrivano, più l’ordine ricevuto si avvicinava alla verità.

Entrai nel tendone e mi diressi verso un sedia di legno. Rollai una sigaretta e accesi. Sudato come un porco. Aspirai lentamente.

Un cavallo con una ragazzina sopra.
Una contorsionista e i suoi movimenti.
Riusciva a leccarsi la fica da sola?
Doveva essere fantastica al letto.
Un equilibrista. Un filo teso. Nessuna rete.

Poi li vidi. I pagliacci. Stavano provando il loro numero. Misi una mano sotto la giacca e tastai la pistola. Mi alzai dalla sedia di legno e li raggiunsi. La terra battuta. Lanciai nell’aria il mozzicone della sigaretta, una piroetta di luce morente. La vidi morire fra le orme di scarpe giganti.

Dissi qualcosa, mi venne detto qualcosa.

Uscii dal tendone. Mi diressi verso una roulotte. Montai il silenziatore alla pistola. La porta era aperta. Entrai.

Un pagliaccio si stava truccando davanti ad uno specchio. Mi vide. Non ebbe il tempo di fare niente. Premetti il grilletto e il suo cervello si spiaccicò sul suo ultimo riflesso.

Molto, molto divertente.

Mi sono sempre stati sui coglioni i clown.

Uscito dalla roulotte, mi allontanai indisturbato verso un bar.


Mi era venuta voglia di bere qualcosa.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...