domenica 28 aprile 2013

Amsterdam #20



Le foto appese in una camera oscura. Lentamente le immagini prendevano vita. Pompini. Bocche che succhiavano cazzi. Un intero servizio. Un’intera serie. Il lavoro di due giorni. Chiusi nella casa di Boris a scattare. Le ragazze. Le pillole di viagra per mantenere le erezioni. Le botte di coca. Un vaso cinese andato in frantumi.

Nel sogno si trovava a Roma, vicino a Largo Argentina. Accanto a un muro c’era un uomo in ginocchio davanti a una bottiglia di plastica, l’uomo aveva preso la bottiglia e l’aveva innalzata al cielo come un’offerta alle sue divinità o come una forma terrena delle divinità stesse. L’uomo aveva parlato alla bottiglia, sussurrando una preghiera. Un raggio di luce aveva trapassato la coltre nuvolosa del cielo e aveva illuminato il suo volto.

Una ragazza thailandese con un fiore sul vestito gli sorrideva nel locale. Lui si era avvicinato e le aveva offerto un bicchiere di martini, avevano parlato in inglese, quando la ragazza rideva il volto le se illuminava e i suoi occhi erano dolci misteri. Erano usciti dal locale e avevano camminato lungo i canali, lui le aveva chiesto se volesse andare a casa sua, avevano comprato un paio di grammi di mandalay al Noon e poi erano saliti al secondo piano di un palazzo in Oude Hoogstraat, quello dove viveva. Avevano fumato e poi lei aveva inziato a fargli un massaggio sulla schiena e alle gambe, quando si era girato aveva un’erezione e lei sorrideva, avevano inziato a toccarsi, ad avvicinarsi con le labbra senza baciarsi, lui scopriva il suo corpo, lei intuiva subito i suoi desideri, le succhiò gli alluci dei piedi, lei glielo prese in bocca fino a farlo venire. Rideva con la sborra che le colava dalle labbra ed era bellissima. Era un gioco, un gioco di bambini. Si addormentò stretto al suo corpo.

Era in un Burger King e mangiava un hamburger, non pensava a nulla di particolare, un paio di ragazze si sedettero al tavolo davanti al suo, una era veramente carina e aveva una gonna corta, molto corta. Lui continuò a mangiare l’hamburger e ogni tanto guardava la ragazza, lei ricambiava velocemente lo sguardo e poi tornava a parlare con la sua amica. Lui prendeva una patatina e guardava la ragazza, lei iniziò a giocare con le gambe e lui le vedeva le mutandine, alcuni secondi, poi lei chiudeva le gambe, poi si spostava e lui aveva un altro lampo delle sue mutandine nere e sentiva il cazzo che gli veniva duro, lei continuava e lui sentiva l’erezione spingergli violenta contro i pantaloni, poi le ragazze si alzarono e lei gli sorrise maliziosa, prima di andarsene, lui finì l’ultimo sorso di coca e rimase seduto un altro po’, il cazzo ancora in tiro. Andò al bagno, chiuse la porta e si fece una sega.

Erano seduti a casa di Boris e una ragazza di colore aveva allungato le gambe sul tavolo, lui le guardava i piedi poi gli occhi poi i piedi poi gli occhi, lei sorrideva, lui anche, tra poco avrebbero dovuto scattare, la ragazza prese una bottiglia d’acqua di plastica e iniziò a bere, lentamente, guardandolo negli occhi, quando la punta della bottiglia si posava sulle sue labbra lei la faceva scivolare dentro, le sue labbra erano piene e morbide e continuavano a guardarsi e improvvisamente nella stanza non c’era più nessuno e lui sentiva i gemiti della ragazza con la punta della bottiglia in bocca, mentre la succhiava piano e i suoi occhi erano scuri e invitanti e il cazzo gli venne duro nelle mutande e se lo toccò e lei rise e posò la bottiglia sul tavolo e rimise i piedi dentro i suoi sandali, poi prese un pezzetto di hashish nepalese, lo squagliò e fece una canna.


Lui pensò alle donne e a quanto fossero meravigliose.

lunedì 15 aprile 2013

senza titolo


Parlavi nella mia mente, ragazzo, ed era così dolce la tua voce. E mi parlavi dell’amore e della quiete dorata, dei respiri al tramonto, del sorriso della luna prima della fine della notte. E a volte, ragazzo, l’amore che provavi sembrava essere qualcosa di sbagliato ed era doloroso vedere negli occhi degli altri il loro desiderio e l’attesa, la voglia di toccarti, era doloroso capire le loro illusioni e farne parte. E tu, ragazzo, eri sempre con me e ti guardavo seduto sotto un albero, mentre leggevi o scrivevi una poesia, ti guardavo sdraiato su un prato con gli occhi chiusi, ti guardavo così spesso, in silenzio, quando credevi che nessuno ti pensasse, che nessuno ti volesse vicino.
Ed è strano come i nostri sentimenti non trovino mai il giusto modo di esprimersi, le persone che hai ferito e continui a ferire, questo pensiero costante di percorrere strade accompagnato dal nulla, nessuno a cui sussurrare le tue parole, nessuno con cui abbracciarsi, nessuno con cui ammirare il cielo e scambiarsi la pelle.

Ti ho visto così tante volte mentre ti nascondevi nel buio e ti domandavi quanto non fosse giusto il ripetersi della sofferenza. Non c’è niente di giusto nel dolore. Non c’è niente di giusto nel modo in cui ci allontaniamo gli uni dagli altri. Eppure è così. Echi di discorsi già perduti nel tempo. Sorrisi sbiaditi. Labbra che non bacerai mai più.

Possa la tua strada essere ancora la mia. 

domenica 14 aprile 2013

Amsterdam #19



Leggeva un libro di poesie seduto su una poltrona, nel soggiorno della casa di Penny, davanti ad una delle grandi vetrate. Beveva tè nero. Penny era uscita a fare un po’ di spesa, a comprare qualcosa per il pranzo e per la cena. Le aveva chiesto di prendere anche del vino rosso. Per la serata. Magari dopo un paio di bicchieri, se erano dell’umore giusto, avrebbero potuto fare qualcosa. Gli piaceva sedurre una donna. Una donna che conosceva. Era un gioco meraviglioso. Gli piaceva la complicità degli sguardi. Il contatto della pelle. Gli piaceva quando Penny portava delle calze velate e lui le accarezzava l’interno delle cosce, poi le sfilava le scarpe con il tacco e iniziava a massaggiarle i piedi, Penny rideva e dava un sorso dal bicchiere. Alcune volte le leccava i piedi. A lei piaceva. Erano le serate migliori. Alcune volte lei gli faceva una sega con i piedi. Dopo l’orgasmo lo ripuliva come fosse un bambino. Era divertente. E i suoi occhi erano stupendi mentre gli toglieva la sborra dal corpo con un fazzolettino di carta.

Posò il libro su un tavolino basso vicino alla poltrona. Sbucciò un mandarino e ne mangiò uno spicchio. Un odore gli invase le narici. Un ricordo. L’odore della colla che suo padre usava quando avevano costruito un plastico per i trenini elettrici. Ci avevano messo un mese a finirlo e ogni tanto, la sera, mettevano i trenini sui binari e li facevano girare. Avrà avuto otto o nove anni. Nel plastico c’erano anche delle case, gli alberi, le luci, le strade. Lo avevano fatto su una tavola di compensato. Erano così calme quelle serate, silenziose, con i trenini che passavano e passavano sui binari. Poi suo padre lo accompagnava a letto e gli leggeva una favola. La voce di suo padre. Erano anni che non la sentiva.

Una volta Penny gli aveva raccontato che per un periodo aveva lavorato come massaggiatrice in un centro nel red light district. La maggior parte delle persone andava lì per farsi svuotare le palle. Alcuni clienti erano degli uomini migliori e sapevano apprezzare e capire la magia di quella esperienza. La magia delle mani femminili sul proprio corpo. Anche lui aveva avuto la fortuna di farsi massaggiare da Penny. Sapeva accarezzarti l’anima con le sue dita. Sapeva quando far crescere l’eccitazione, quando calmarla. Era una gioia fatta di luce, esplodere nelle sue mani. E ringraziarla. Come ringraziava ogni donna dopo che l’aveva fatto godere.

Penny tornò a casa. Posò le bottiglie e le buste in cucina. Si avvicinò a lui e gli diede un leggero bacio sulle labbra.

-         Perché?
-         Perché oggi ti voglio bene

Lui sorrise. Lei anche. Si sedette sul divano vicino alla poltrona. Lui si alzò e si mise accanto a lei. Con un gesto malizioso Penny si tolse le scarpe e piegò le gambe sotto di lei. I piedi sfioravano i suoi pantaloni. Lui ne prese con delicatezza uno in mano e cominciò a massaggiarlo. Si guardarono negli occhi senza dire una parola. Non c’era nessun bisogno di parlare. Non con lei.

Fuori, un cane, passò abbaiando.

giovedì 11 aprile 2013

...


Fu allora, in piedi alla finestra, che lui sentì che qualcosa era arrivato alla fine. Qualcosa che aveva a che fare con Eileen e la vita prima di allora. L'aveva mai salutata con la mano? Naturalmente doveva averlo fatto qualche volta, anzi senz'altro, però ora non se lo ricordava proprio. Ma si rese conto che ormai tra loro era finita e si sentì in grado di lasciarla andare. Era sicuro che la loro vita insieme era accaduta proprio nel modo in cui l'aveva raccontata. Ad ogni modo era qualcosa che apparteneva ormai al passato. E anche quel passato - per quanto gli fosse sembrato impossibile e avesse combattuto perché non accadesse - adesso sarebbe diventato semplicemente una parte di sé, al pari di tutte le altre cose che si era lasciato alle spalle.

raymond carver
febbre

sabato 6 aprile 2013

Leave me alone




Andavo al lavoro a piedi, era vicino casa. Nel tragitto per arrivare ascoltavo i New Order, sempre le stesse tre canzoni: Your silent face, Ultraviolence e Leave me alone. Le volte migliori erano quando il cielo era nuvoloso e non me ne importava molto delle cose che c’erano intorno a me, delle persone, dei cani, delle strade. Ero protetto, chiuso in una confortevole distanza. La mattina praticavo delle respirazioni, dopo essermi alzato. Chiudevo gli occhi e respiravo. Il vuoto interiore era meraviglioso. Era lo scorrere di un fiume. Era l’assenza di qualsiasi desiderio. Era un buio quieto e familiare nel quale mi trovavo perfettamente a mio agio. Ma una volta che aprivo gli occhi il mondo intorno era di nuovo lì. Con tutte le sue false promesse, i suoi trucchetti, le sue illusioni. Avevo capito che il modo migliore per vivere era allontanarsi da tutto e da tutti, non cedere alle passioni, non trasformare i bisogni in ossessioni. Scorrere quieto e inarrestabile come un fiume. Mi sembrava la metafora più adatta. E dentro di me c’era una voce che parlava e quelle parole andavano scritte e nascevano quasi sempre da luoghi oscuri, non era lo stesso buio della meditazione, era un buio diverso, ancora più profondo, un abisso maestoso e in quel luogo era difficile non perdersi ma allo stesso tempo era sublime immergersi ed annegare e sciogliersi nell’oblio. Il vino, la birra, gli alcolici erano porte verso l’ebbrezza o verso l’annullamento. L’ascesi. Il controllo dell’energia sessuale. Le sostanze psichedeliche che non riuscivo a trovare. La mia mente era in viaggio continuo e si fermava solo quando praticavo la respirazione e mi fissavo sull’attimo presente, senza più futuro, senza più passato. Immobile eppure mutevole. Fermo eppure vivo. L’universo interiore era così vicino, bastava chiudere gli occhi e respirare. C’erano i sogni e i mondi onirici e la mia mente e il mio corpo esploravano, provavano emozioni, sperimentavano. C’era di nuovo la vita in tutte le sue manifestazioni. Ma sapevo, sapevo che un giorno sarei andato via, definitivamente.
Nessun altro luogo è talmente splendido come la propria anima che continua a fiorire.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...