venerdì 28 dicembre 2018

dream #83

Sono in un una casa, insieme a Rafael, lui è in una stanza, seduto su un letto, la televisione accesa, sta scrivendo qualcosa su un quaderno, qualcosa per un esame universitario o un diploma che vuole prendere, lo vedo attraverso una porta aperta, io sono in un’altra stanza, mi avvicino ad un letto, c’é una bustina trasparente sopra le coperte, la prendo, c’è un pò di erba dentro, Rafael entra nella stanza e la bustina mi cade dalle mani, lui m chiede se voglio uscire, gli dico di si, raccolgo un pò dell’erba che è finita sul pavimento e la rimetto nella bustina, poi seguo Rafael.
Camminiamo per una città che non conosco, ogni tanto penso a che ore siano perché ho un appuntamento con Sara vicino alla stazione, non vedo più Rafael, mi siedo accanto ad un muro, sensazioni di ombre e luce.
Sono in una stanza bianca, c’è una lavagna affissa ad una parete con dei piccoli altoparlanti ai lati, è la classe dove insegnavo, non c’è nessuno dentro, esco e cammino per un corridoio, Claudia e Francesca vengono verso di me, dall’altra parte, scambio uno sguardo con Claudia quando mi passa accanto, lei dice qualcosa, mi riconosce, io tiro dritto senza dirle nulla, poi dopo alcuni passi mi giro e  lei  è ancora ferma nel mezzo del corridoio a guardarmi, cammino veloce per raggiungerla, ci abbracciamo, sento qualcosa di caldo sciogliersi nel mio cuore.

Siamo in una stanza e Francesca è sopra di me, sul letto, strusciandosi sopra il mio corpo, ho il cazzo duro, lei mi sta dicendo qualcosa, mi sento eccitato, sto aspettando che arrivi Claudia, è in bagno, sento il rumore dell’acqua. Francesca scompare da qualche parte, mi alzo e trovo Claudia appoggiata ad un muro, in penombra, in un’altra camera, siamo nudi, la abbraccio di nuovo, ho una erezione, il contatto della sua pelle, cominciamo a scopare, in piedi, senza parlare, solo quel movimento fluido, oscillante, dei nostri bacini, fino a quando ci dissolviamo nel vuoto di questo mondo.

giovedì 27 dicembre 2018

Aberystwyth #10

Il più delle volte, durante la notte, mi ritrovavo in luoghi che non erano gli stessi in cui mi ero addormentato. Era probabile che il mio corpo continuasse a rimanere disteso in una delle stanze di LLys Wen ma una parte di me era altrove, poteva essere Roma, una città sconosciuta, l’interno di un palazzo e delle sue misteriose camere, una stazione ferroviaria o un aeroporto, un luogo che cambiava forma e sostanza e i cui passaggi erano imprevedibili. C’erano incontri con persone che avevano attraversato la mia vita, alcune di esse erano ancora molto giovani soprattutto quelle che avevo conosciuto durante la mia adolescenza e mai più rivisto. Mi accorgevo, sogno dopo sogno, che questo era un modo per risanare le ferite che ci eravamo inflitti, un modo concreto per dirigermi nel centro stesso di conflitti irrisolti e curare le emozioni negative che essi avevano generato. Ogni volta che riemergevo nel mio letto portavo qualcosa nel mio cuore di quegli incontri e nello stato di transizione in cui mi trovavo iniziavo solamente a respirare senza appigli logici, mentali o psicologici, ampliavo i respiri in serie continue di onde interiori piene di calma e quiete. Alcuni incontri erano molto piacevoli, in altre occasioni c’erano delle esperienze sessuali, portavo tutto con me e lo assimilavo in uno spazio personale protetto e avvolgente. 
I momenti di passaggio erano i più preziosi, non quelli tra un sogno e un altro, che stavo ancora cercando di imparare a usare, ma quelli tra lo stato onirico e la veglia, era una dissolvenza incrociata fra due mondi, fra le immagini del primo e quello in cui si trovava il mio corpo, tra le emozioni provate e la calma profonda di uno stato di coscienza senza attriti o preoccupazioni.
E il giorno sapevo di essere ancora qui, nella magia di questa terra, delle sue colline, dei colori, della luce, degli elementi in continua mutazione. Avevo infine trovato un luogo che fosse uguale a quello che avevo dentro. Lo stesso respiro, lo stesso vivere.
Discendere dentro di me, specialmente attraverso la meditazione, significava arrivare nel centro silenzioso dell’esistenza, non la mia in senso personale, ma quella che era presente ovunque e di cui ognuno di noi faceva parte. Entrare in quel luogo può sembrare un’esperienza solitaria e lo è nel suo apparente isolamento ma è anche la scoperta che non siamo soli perché quel luogo appartiene a tutti. 

Ogni giorno è veramente una morte e una rinascita, in un ciclico movimento di noi stessi e di tutto quello che ci circonda, fino all’ultimo passaggio, quello per cui siamo nati e che molti di noi temono e guardano con paura, quel momento per cui hai usato tutto il tempo che avevi a disposizione, ci sarà luce, intorno e dentro di te, ci sarà un respiro e il suo riflesso e ogni attimo che hai vissuto su questa terra si rispecchierà nel vuoto infinito dei tuoi occhi ormai muti.

lunedì 24 dicembre 2018

Aberystwyth #9

Pioveva. E novembre stava per finire. E c’erano libri ovunque nella casa dove abitavo, insieme ai fantasmi di giovani tossici, le carte da parati che qualche sostanza psichedelica avrebbe reso vive come nella danza dei mille scarafaggi volanti, il gruppo di meditazione buddhista in cui rimanevo in silenzio a respirare e poi al suono d’argento della piccola campana aprivo gli occhi e ascoltavo gli altri con muto stupore, non avevo molto da dire, forse non ne avevo mai avuto, la sauna in cui i corpi si incontravano ed espellevano fluidi e tossine, le ragazze ubriache che camminavano lungo le strade il sabato sera, passavo i pomeriggi disteso sul letto, a leggere o semplicemente a immergermi nel mondo interiore, diventavo settimana dopo settimana sempre più bravo, la piccola stanza come quella della mia adolescenza, sembrava che la vita mi stesse riproponendo gli stessi scenari, le stesse ambientazioni, ma non avevo fretta o paura, c’era solo una pacata resa, una delicata  contemplazione, mi limitavo ad accettare le cose che mi capitavano ogni giorno, mi lasciavo attraversare da esse, come se fossero aria e mi rendevo conto che in questo modo ogni problema si dissolveva, non c’erano più incazzature, aspettative, delusioni, attimi di sofferenza, incomprensioni, la vita si modellava in forme che non possedevo e che non mi toccavano eppure in questo lieve distacco c’era sempre la sensazione di trovarmi nel centro stesso della mia esistenza, di essere reale e concreto, di capire quello che ero senza fraintendimenti, la ricerca interiore proseguiva da sola, mi trascinava con sé, mi faceva chiudere gli occhi e osservare me stesso, le mie emozioni, come erano nate, i perché dei miei errori, la confusione di quasi quaranta anni di risvegli su questa terra si stava diradando, mi sembrava la maniera migliore di occupare il mio tempo, cercare di sentire finalmente la mia essenza, non era un tipo di comprensione intellettuale o psicologica era una consapevolezza più ampia e vasta che sapevo bene non appartenermi anche se era dentro di me, passare attraverso di essa significava ritrovarsi all’esterno e capire di fare parte di qualcosa di identico ma infinito, presente in ogni respiro, come le onde nel mare, un attimo dopo l’altro e avevo i sogni e quello che ogni notte mi mostravano, la possibilità  di confrontarmi di nuovo con tutto ciò che mi aveva ferito, mi concentravo su quelle sensazioni sgradevoli e le curavo respirando fino a quando il cuore fosse calmo e pieno di pace e in questo modo comprendevo che ogni reazione sbagliata non era stata altro che un malinteso dei miei sentimenti soltanto perché li avevo creduti reali nel momento stesso in cui mi attaccavo ad essi senza lasciarli andare, non c’era mai stato nulla che avesse avuto veramente importanza perché ogni stato d’animo non era altro che un illusorio aggrapparsi al proprio ego, al quale poi si finiva per dare il nostro volto e la nostra vita, un biglietto da visita da mostrare in una società piena di stronzi, alla quale molti di noi decidevano di credere e fare parte.
Osservavo le mie mani in un’alba di grazia nascosta fra i grigi veli del cielo d’inverno e mi sembravano molto vecchie ma c’era anche una primavera costante che sentivo vibrare proprio nel centro del petto, c’erano i suoi colori che potevo toccare sfiorando la mia pelle, abbiamo invocato l’amore come fosse una divinità impossibile da trovare, guarda i giorni che ti hanno solcato il volto, la morte che   misteriosa ti attende, guarda te stesso sprofondare negli anni, tra i fiori che  hai visto sbocciare e appassire, fra tutti gli occhi che ti hanno sorriso per poi infine svanire.

sabato 22 dicembre 2018

Aberystwyth #8

La stanza aveva un odore stantio di sigarette, i posaceneri erano vuoti, testimoni assenti di notti insonni, i pacchetti ancora da scartare in fila su mobili di epoche passate, pareti rosa pallido con decorazioni settecentesche, le confezioni delle medicine e una bottiglia di vodka piena a metà, la porta misteriosa, al piano superiore, che nessuno aveva il coraggio di aprire, un uomo affacciato ad una finestra, l’inconsueto tempo trascorso fra una risposta e un’apparizione fisica in uno spiraglio di luce, la legna era disposta in scatoloni di cartone, nella parte posteriore della casa, i ciocchi erano tasselli di un puzzle mnemonico che le droghe cercavano sempre di scombinare, un matrimonio fallito, una carriera universitaria conclusasi fra formule chimiche alterate e leggi fisiche a cui nessuno era più interessato, stazioni radio crepitanti nella notte, studi televisivi invasi da incubi di rumore bianco, frequenze manomesse da sabotatori filmici, la poltrona sulla quale l’uomo rimaneva seduto a guardare uno schermo che pulsava di interferenze grigie e nere, piombo nei polmoni, metastasi elettroniche come ragni meccanici nel cervello, le storie scritte da dita tremanti, le fotografie di paesaggi astratti, le emulsioni in vasche di desideri sconosciuti, gli studenti  enteogeni stavano tornando ad invadere le aule di università abbandonate nella pioggia, risate rauche echeggiavano nei corridoi, lezioni di decadenza morale e sinestesia politica, siamo ingabbiati in un sogno contenuto in un sogno contenuto in un sogno, dove è la forma? Dove sono i dragoni e le farfalle? Urlava Sam mentre una infermiera lo inseguiva con una siringa d’argento in mano, nuvole azzurre lasciate ad asciugare su un orizzonte di cemento arancione, i giorni che sembravano smarrirsi nelle ipnosi sonore di temporali invisibili, le matite spezzate nelle albe di aule di scrittura creativa, sedie vuote dai contorni sfuocati, indagini esistenziali, le ragazze aspettano un invito per alzarsi e mostrarti le loro mutandine, saranno ancora gli inganni di questo mondo a lasciarci sospesi sui limiti di città senza più nome, ad ognuno la propria serie infinita di lettere spedite e ricevute, tutte le parole che finiremo insonni per dimenticare, tutte le pagine strappate e bruciate, ogni granello di polvere che vedremo danzare nel vuoto non sarà altro che l’inizio e la fine di un’ennesima poesia incompiuta.

mercoledì 19 dicembre 2018

Aberystwyth #7

Nuovi incontri transpsichici con i chakra colorati del Dottor Ballard, Liz produceva suoni circolari con le sue campane tibetane e mi proiettava in stanze astrali in cui potevo discutere con l’aurea lucente del mio psicoanalista letterario, nuovi studi fra analisi freudiane e pratiche meditative buddhiste erano stati portati avanti nelle aule sotterranee dell’Università Balinese, proprio accanto ai laboratori chimici per la sperimentazione e sintetizzazione di psicoerotiche sostanze allucinogene, bene, appuntava la dottoressa con le calze velate, accavallando le gambe, il paziente sente alla base dei coglioni la nascita di una erezione, controlliamone gli stimoli e colleghiamoli ad immagini feticistiche, qualcuno porti una camicia di forza, in caso dovesse perdere il controllo, il Dottor Ballard era dietro il vetro protettivo, in una stanzetta bianca e insonorizzata e scriveva sul suo quaderno nero, appunti, libere associazioni, sogni, ricordi, il fallimento della cura Ludovico era stato palese, saremmo tornati indietro ai momenti traumatici e avremmo sostituto quelle esperienze e la loro deflagrazione emotiva con altri impulsi sinestetici, certo, c’era il rischio che il paziente impazzisse definitivamente, senza più la minima idea di cosa fosse reale o accettabile come tale, abbiamo file di cavie umane, schiavi sessuali in stato di deprivazione orgasmica, troveremo un rimedio, perdio, diceva ad alta voce uno scimpanzé in camice bianco, sbattendo il suo pugno peloso sulla scrivania di legno plastificato, poi silenzio, un sigaro veniva acceso e le telecamere di sorveglianza si muovevano negli angoli delle celle di isolamento, un uomo completamente nudo incatenato ad una parete, l’infermiera che gli si struscia addosso, il cazzo dell’uomo violaceo e pulsante, la punta enorme e gonfia, un filo di una sostanza bianca che gocciola sul pavimento, contrazioni ritmiche di vagine meccaniche, iniziare l’esperimento numero 23, l’infermiera posiziona il cazzo dell’uomo nell’apparecchiatura elettrosessuale, vediamo i tempi di reazione, l’infermiera guarda il suo orologio e spinge un bottone, ronzii, vibrazioni, sonorità indiane fluttuanti nelle gabbie mentali, giorni e notti di abominio, sbarre su finestre invisibili, cliniche e incarcerazioni comportamentali, studi su disordini e ossessioni compulsive, gli specchi senza riflessi, le sedie a cui ognuno di noi veniva prima o poi legato, interrogatori, silenzi, erezioni e anelli metallici, confessioni di bianca coscienza, estasi, trascendenze, morti e rinascite in corpi di vuoto e sudore.

sabato 15 dicembre 2018

Manchester #6

Non che il mondo, le cose e le persone fossero cambiati dopo questi mesi di assenza, isolamento, esilio, riparo, fuga, la lontananza da una vita normale mi aveva mostrato più chiaramente quanto sapevo già, non avevo mai avuto bisogno della gran parte delle merdate che mi circondavano, ma ci ero cresciuto nel mezzo, le avevo da sempre avute intorno e  per questo, alla fine, le avevo credute reali. Non pensavo fosse possibile vivere al di fuori di quel perimetro di costrizione sociale e mentale in cui ci avevano addestrati fin da bambini e invece una scelta la potevamo ancora fare e dopo guardare tutto con occhi nuovi e più attenti. Lo schifo c’è ancora, è inevitabile, lo vedo materializzarsi anche adesso, fuori dalle vetrate dell’acquario virtuale in cui sono seduto a scrivere, nello spazio di anonimato metropolitano di una stazione ferroviaria, posso osservare le persone che camminano e passano nel vuoto architettonico, traiettorie orizzontali di esistenze ignote, questi corpi mi scivolano davanti senza che possano toccarmi, i loro vestiti, le mode, gli stili, tutto superfluo, tutto illusorio e ancora i miserabili, come quelli che mi sono lasciato dietro nel mio passato di ingannevoli privilegi, seduti ai lati della strada, gli occhi che cercano intorno, che cosa? Che qualcuno li riconosca, che qualcuno si fermi e parli con loro e li faccia sentire ancora esseri umani, ma tutti tirano dritto, corrono, si affrettano, parlano all’aria, fissano uno schermo, un uomo e una donna discutono di lavoro e guadagni e famiglia, seduti accanto a me, di quello che succederà domani, fra un mese, tra un anno, previsioni, colloqui, scambi, spiegazioni, frasi sputate fuori così velocemente che corrono il rischio di perdere il proprio significato, ma loro sembrano capirsi, mentre li ascolto e continuo a scrivere, lentamente, perché non c’è più traccia d’inquietudine nel mio cuore per quello che dovrà succedere, non voglio oppormi, creare attriti, ogni conflitto è stato perso e con esso sono tramontate le costanti e illusorie interpretazioni del caos, i volti e le maschere del destino e le sue bizzarre sceneggiature, dialoghi sempre più minimalisti, un sorriso, un accenno, il movimento involontario di un sopracciglio, quale sarebbe stato il prossimo passo? La Caduta, era il titolo di un soggetto che il produttore aveva ancora intenzione di realizzare, Giorni Rubati, la proposta sovversiva di un promettente sceneggiatore, qualcuno attendeva risposte nei respiri che momento dopo momento si regalava, sarebbe diventato più difficile dopo? Chiedeva un giovane fotografo al proprio riflesso sconvolto, il trucco che colava dalla sua faccia  e le sostanze in strisce oblique sul tavolino di vetro, posa la bottiglia suggeriva la mano allo scrittore, poi calci in culo agli stereotipi e maschere mandate in frantumi sui palcoscenici dell’avvenire. 
Ci sarà un punto su questa linea oltre il quale non potremo più andare. Ti aspetterò lì. Perché possa ancora guardati negli occhi. E baciarti. E dirti addio con le mie labbra.

giovedì 13 dicembre 2018

dream #82

Cammino per una strada senza persone, sopra una macchina trovo una giacca a quadri, rossi e neri, mi guardo intorno e la prendo, poi me la infilo e continuo a camminare, mi accorgo di essere arrivato vicino al mio vecchio ufficio, cambio direzione e attraverso vie secondarie, poi mi ritrovo in un cortile, entro in una porta e scendo delle scale, è buio e ho una spiacevole sensazione, alla fine delle scale c’è un bagno e un altro paio di stanze oscure e umide, forse usano questi luoghi per la coltivazione clandestina di funghi allucinogeni, cerco di tornare nel cortile, sono pervaso da strani pensieri di smarrimento, poi sono fuori, da qualche altra parte, continuo a camminare, arrivo davanti alla porta di Sofia, lei apre e mi fa entrare, c’è un letto sulla parete destra e sembra che adesso lei viva lì, ci sediamo a un tavolo, mi sento attratto da lei, la bacio, la accarezzo, lei tira fuori dei soldi e li posa sul tavolo, ci guardiamo, poi entra un uomo cinese, si siede accanto a noi e comincia a succhiarmi le dita della mano, poi si alza e se ne va, Sofia mi dice che deve uscire, deve andare da un suo cliente, mi dice che anche io devo andare via e che posso tornare da lei fra un paio d’ore, ci abbracciamo, in piedi, le metto una mano fra le cosce, ha delle calze e sono bagnate, poi esco e cerco di dirigermi verso la casa dove abitavo a San Lorenzo, è ancora Roma, nel suo doppio onirico, mi fermo in un vicolo, indosso ancora la giacca a quadri, in una delle tasche trovo un portafogli, ci sono dei biglietti di carta dentro ma nessuna banconota, nella parte per le monete trovo delle piccole palline nere, le annuso, è hashish, chiudo il portafogli e lo metto nella tasca dei pantaloni, mi tolgo la giacca e la lascio su una macchina, mi guardo intorno e non c’è nessuno, cammino ancora, non so più dove sono, ancora palazzi, poi qualcuno che mi chiama e mi pone una domanda, non rispondo, ci avviamo insieme verso una scuola, camminando vicini in un silenzio fatto di edifici e strade sconosciute.

martedì 11 dicembre 2018

Aberystwyth #6

I sentieri del campus erano vuoti, gli studenti si erano nascosti fra gli alberi aspettando il momento giusto per sparire in un improvviso bagliore senza tempo, gli edifici di mattoni disegnavano uno schema di lezioni sbagliate, nelle aule i professori avevano adottato sistemi di insegnamento sperimentali, con scioperi e opposizioni e metodologie della masturbazione guidata, l’aula dei tacchi a spillo, quella delle calze velate, valutazioni feticistiche in trimestri ed atti unici osceni e abbandonati sui palchi del Teatro d’Argento, le giovani ballerine camminavano in punta di piedi, timide e silenziose e nella camera oscura si sniffavano polveri e nitrati su lastre al magnesio, poi folgorazioni elettriche in stampe da appendere in stanze ottogonali, ognuno di voi avrà il suo lato di futuro, ridacchiava uno degli insegnanti mentre si stringeva un laccio di cuoio intorno ai coglioni rasati. 
Lo schermo sembrava essersi svuotato anche se i tecnici del suono continuavano a manipolare i diversi rumori: vento, traffico in lontananza, gabbiani, musica jazz, sperimentalismi classici e avanguardie di suicidi dodecafonici, i libri dalle copertine plasmabili, le impronte di dita di gomma e celluloide, nel dipartimento di cinema e teatro si potevano passare intere giornate, solamente chiudendo gli occhi e lasciando che le sostanze psichedeliche facessero effetto, la nuova onda è qui e ora aveva scritto qualcuno sulle mattonelle di un cesso accademico, una studentessa osservava le lettere danzare leggermente mentre con una mano si accarezzava la fica e un uomo con gli occhiali dalle lenti trapezioidali la riprendeva  con il suo apparecchio di registrazione automatica, scrittura della psiche, ragnatele lessicali, picchi di strutture molecolari sul punto di infrangersi oltre le barriere del sonno, gli aerei da caccia che volavano bassi, in simulazioni di guerre atomiche non ancora scoppiate, le confezioni di codeina in un cassetto, le ricette mediche che una mano dalle unghie affilate mi passava sotto una porta onirica, passeggiate lente e senza meta, passi di danze soporifere in circoli di astinenza, lo scrittore si esercitava in stili di vita da marciapiede, costruiva  un personaggio immedesimandosi nella sua esistenza, prove diurne e rituali notturni, oggetti trasformati in feticci sotto l’occhio imperscrutabile della divinità lunare, ti troverò ovunque, diceva la faccia bianca, per poi abbandonarsi a orgie di latex e orgasmi cosmici,  la legna crepitava nella stufa e il tappeto aveva ancora figure geometriche in movimento, l’album delle fotografie da sfogliare, gli studi per il montaggio delle attrazioni ricoperti da materiali morbidi e scintillanti, le sequenze che avremmo inventato notte dopo notte, perché ogni risveglio fosse diverso da quello precedente, l’arte del tuo vivere, l’incandescente vibrare del tuo sangue nelle vene del mondo.


lunedì 10 dicembre 2018

Copenhagen #2

Correnti e movimenti metropolitani di corpi, canalizzazioni psichiche verso nessun luogo, ventiquattromila ipotesi di personalità  smarrite, volti che si sovrapponevano creando identikit senza logica, passato o prospettive future, ogni vita si immobilizzava in un frame di  possibilità perpendicolari e così camminavamo verso i miraggi architettonici del Black Diamond, la biblioteca di blocchi trasparenti dissolti nello spazio urbano, le linee delle luci che nuotavano nell’aria creavano scie di visioni geometriche, i passi si facevano ritmici, pusher street e Christiania, gli stili di vita alternativi degli anni settanta stampati su magliette e adesivi, il Mercato divorava ogni cosa, il Capitale era in grado di omologare qualsiasi tentativo di ribellione, le proteste non erano diventate altro che enormi scherzi commerciali, scioperi invisibili di classi sociali scomparse, avanguardie artistiche naufragate in bottiglie di vodka annacquate, il muffin aveva un forte sapore di hashish e lo masticavo lentamente, poi io e Maria ci siamo diretti  verso il Nyhavn e i suoi colori pastello di facciate fiabesche, mi sentivo leggero e di buon umore e il lieve effetto dell’hashish che stavo sentendo e che credevo mi avrebbe trasportato in una morbida serata di incanto ha iniziato a intensificarsi sempre di più e quando mi sono reso conto della botta che mi stava salendo è stato troppo tardi e così il sogno psichedelico è tornato a trovarmi insieme alle stroboscopiche intermittenze lampeggianti delle giostre del Tivoli, dove siamo arrivati senza che neanche me ne accorgessi, perso e pesante nelle mie scarpe di cartapesta, poi i fuochi d’artificio hanno cominciato a esplodere nel cielo come ragni danzanti, le traiettorie colorate dei laser sezionavano nuvole di fumo sintetico, eravamo immersi in un delirio ludico allo stato puro, era tutto intorno a me, in ogni singola percezione, sogghignavo come un demente, continuando a smarrirmi, aggrappandomi ai discorsi di Maria che cercava di farmi riprendere, purtroppo senza nessun risultato, ci siamo spostati e seduti e poi spostati e seduti di nuovo e c’erano enormi pale che ruotavano in maniera circolare con aerei artificiali attaccati alle estremità, navi volanti, montagne russe sintetiche, tazze che vorticavano in coreografie lisergiche, paesaggi orbitali, atterraggi e partenze in notturne circonferenze nordiche, spinte ondulatorie in sequenze carnevalesche, pantomime in costume di attori di legno, carne e metallo, manopole dell’alta velocità, leggi fisiche abolite nelle eco di ghigni e urla e strilli di divertimento terrorizzante, case degli specchi, la luce del mattino che accarezza piano le tende e le superfici bianche della stanza in cui mi sveglio, Maria ancora addormentata al mio fianco, la guardo nella grazia di questo momento, con una enorme tenerezza nel cuore, senza più pensieri e promesse, mentre il tempo che da sempre ci accompagna scivola piano lontano da noi.

domenica 9 dicembre 2018

...

“In his forty-third year William Stoner learned what others, much younger, had learned before him: that the person one loves at first is not the person one loves at last, and that love is not an end but a process through which one person attempts to know another.
They were both very shy, and they knew each other slowly, tentatively; they came close and drew apart, they touched and withdrew, neither wishing to impose upon the other more than might be welcomed. Day by day the layers of reserve that protected them dropped away, so that at last they were like many who are extraordinarily shy, each open to the other, unprotected, perfectly and unselfconsciously at ease.
Nearly every afternoon, when his classes were over, he came to her apartment. They made love, and talked, and made love again, like children who did not think of tiring at their play. The spring days lengthened, and they looked forward to the summer.” 


john williams
stoner

sabato 8 dicembre 2018

dream #81

Barbara mi abbraccia in una stanza in penombra, sento le sue labbra sul mio orecchio, ti stiamo pensando, mi sussurra, poi altre parole che mi scivolano dentro e diventano sensazioni fisiche come quelle delle linee del suo corpo. Un treno in partenza per una città spagnola, i biglietti che non riesco a trovare, tutta la roba che mi sono portato dietro poggiata in un angolo, non ne ho bisogno, non ne ho mai avuto, prendo solo lo zaino e mi incammino dentro la stazione, seguendo binari che non finiranno mai. 

mercoledì 5 dicembre 2018

Artist Valley #14

147 ore di luce, con accenni di buio e stelle scintillanti nel cielo porpora e damasco, l’attesa della pioggia e le danze primitive intorno al cerchio della mezza luna, Fiona era tornata dalla Spagna dopo giorni di digiuno e astinenza, rinchiusa in un perimetro invisibile delimitato da quattro feticci africani, le preghiere che il suo ego sibilava in conflitti interiori mai risolti, i teatri dell’infanzia che lunatici personaggi ancora interpretavano nei suoi sogni di abbandono, non c’era più traccia di razionalità nei suoi discorsi, ormai sprofondati in dirupi di follia messianica, la vedevo camminare intorno, sui prati, nelle stanze, benedicendo ogni cosa che si trovava davanti, portandosi appresso una brocca piena d’acqua,  santificata attraverso qualche misterioso rituale, Fiona si era perduta in una sorta di mistica deriva dei propri pensieri, combinando estasi indotte dal peyote a redenzioni cristologiche in costume, viveva ancora nella sua macchina e si spostava da un posto all’altro, principalmente Glastonbury e Wales, con la sua chitarra e le psicosi di una vita sempre sul punto di crollare e svanire ed era arrivata con una ragazza rumena, che aveva dormito sul pavimento del nostro cottage e poi la mattina aveva iniziato a parlare senza più fermarsi, snocciolando allucinazioni matematiche boschive, formule alchemiche e teoremi di geometrie polidimensionali, non ci avevo capito un cazzo di quello che stava dicendo, poi mi guardava e i suoi occhi erano ferini, atavici, mi aveva quasi spaventato con quello sguardo, c’era una presenza sessuale malata in quelle iridi, mi era venuto mezzo duro ma poi ho lasciato stare, mi sono alzato e sono uscito fuori, Fiona stava parlando in spagnolo con due bambini che non capivano assolutamente quella lingua e lei si era lanciata in un lungo ed estenuante monologo che nessuno sembrava ascoltare, poi se ne andava nel ruscello inscenando un delirio battesimale che le rocce applaudivano, mentre l’acqua creava forme di lucida astrazione e io mettevo altra legna nel fuoco, aspettando che qualcuno prendesse in mano la situazione ma la logica era ormai fuggita fra gli alberi e le colline, scomparendo oltre le ultime difese del pensiero e della sera e allora ho chiesto a Josh di passarmi la pipetta di pietra nella quale stava fumando erba, ho fatto un paio di tiri e sono rimasto in silenzio, qualcuno mi ha passato un bicchiere di birra, Mark è arrivato con la bottiglia di whisky che avevamo comprato in qualche cittadina di mare e la confusione mi accolto con la sua danza di grazia e oscenità e ho continuato a guardare le fiamme, le immagini della cerimonia della notte precedente che tornavano a mostrarsi, l’alba nata fra le parole di una donna con fili d’argento nei capelli, tutti i suoi movimenti che sembravano essere stati studiati e ripetuti fino allo sfinimento per quanto erano precisi e perfetti nella loro femminile fluidità e poi di nuovo fra le strade di una città onirica, ancora smarrito in un labirinto di volti e strade, lo scrittore viveva in una stanza al terzo piano di un albergo fatiscente, le insegne rossastre dei cinema porno, le puttane che passeggiavano lente sui marciapiedi, tutti i discorsi che non abbiamo più fatto, tutti i saluti, tutti gli abbracci che non ci siamo più dati, riemergevano i ricordi sulle superfici piatte di lenzuola di perla e sudore, le linee di bianca energia che pulsano sotto le palpebre, i canti che Michael intonava nel cuore di ognuno di noi, ci siamo guardati negli occhi in una mattina che il tempo aveva dimenticato, due universi che si incontravano in un attimo di puro splendore.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...