sabato 30 giugno 2018

Manchester #4

Ero seduto su una comoda poltrona di pelle nera, davanti a una vetrata da cui potevo vedere le forme futuristiche e illusorie della città, le strutture spaziali che racchiudevano uffici e stanze segrete e corridoi che univano punti di un progetto incompiuto che giorno dopo giorno veniva distrutto e ricreato, modificando le percezioni visive degli abitanti, ogni volta che la luce si rifletteva sulle superfici dei materiali plastici e metallici dei palazzi. Si era aperta una porta e nell’ambiente in cui mi trovavo era entrata una segretaria, aveva una gonna che le arrivava sopra il ginocchio, delle calze velate e delle scarpe aperte, mi aveva consegnato un fascicolo, sorridendo e poi se ne era andata, lasciando una scia di profumo sensuale alle sue spalle. Il titolo del dossier era L’universo come ologrammae racchiudeva le trascrizioni delle discussioni che io e il Dottor Ballard avevamo avuto, dopo l’assunzione di diverse sostanze sperimentali che certi membri di alcune case farmaceutiche clandestine gli avevano dato. Avevamo avuto intuizioni sensoriali, mentali e psichiche sull’origine della realtà e della nostra connessione con essa. Fondamentalmente all’interno di una metropoli nulla era reale in quanto era solo la concretizzazione di un progetto concettuale. L’idea nasceva nella mente di un architetto e poi veniva disegnata. Dopo altri uomini si impegnavano a spostarla nello spazio urbano e a farla diventare parte di esso. La natura era diversa. C’era un seme e al suo interno la struttura e la forma di quello che sarebbe diventato, il suo codice genetico. Avrebbe fatto tutto da solo. Idea e realizzazione erano la stessa cosa. Gli psicoingegneri avrebbero dovuto spostare l’evoluzione delle costruzioni in questa direzione. Seminare palazzi che si sarebbero costruiti da soli. Posai il fascicolo su un tavolinetto e spinsi un bottone sotto il bracciolo della poltrona. Dopo alcuni secondi la segretaria arrivò di nuovo, si sedette su una scrivania e accavallò le gambe. Mi girai verso di lei e una scarpa le scivolò dal piede. Improvvisamente mi ritrovai con delle cinghie intorno ai polsi e alle caviglie. Lei sorrise. Si avvicinò e iniziò a sbottonarmi i pantaloni. Chiusi gli occhi. Flash viola di neon nella notte piovosa di una metropoli di un oscuro delirio. Lei mi infilò un anello di metallo intorno al cazzo, poi si allontanò. Aprii gli occhi. Era seduta sulla scrivania. Spinse un bottone e sentii delle scariche elettriche nella mia improvvisa erezione. Si divertiva. Non parlavamo. I segnali di un’interazione erotica erano dettati da impulsi ormonali. Un ronzio di basse frequenze invase i nostri corpi, immagini pornografiche pulsavano in colori acidi dalle pareti, voci che si scioglievano in lamenti di piacere, serie di numeri proiettate sul soffitto, gli album fotografici che mani invisibili sfogliavano a velocità stellari, gli appunti trascritti in flussi di libere associazioni, i ricordi che qualcuno innestava nella memoria degli sconosciuti inquilini di queste oscene paranoie, lei che struscia i suoi piedi velati sul mio volto, insceniamo teatri di improvvisazioni primitive, cambi di visuale e attori in stati di alterazione progressiva, un lungo e interminabile suono acuto e spiraliforme, scatti dell’otturatore e fotogrammi rallentati fino all’immobilità di un fermo immagine atemporale, statue di divinità sessuali, il giorno che esplode in allucinazioni sferiche, barriere vocali che le urla degli schiavi trasformano in orgasmi, antenne che trasmettono codici di aberrazioni psicosomatiche, inspira, espira, inspira, espira, interferenze sugli schermi degli apparecchi di controllo, un microfono che si accende davanti a due labbra rosse e carnose, la lingua umida che ci gira intorno, i suoni acquosi di un pompino amplificati in perversioni di abissi feticistici, un’anguilla che le esce dal buco del culo, il fotografo giapponese in preda a una crisi di astinenza, i tioli sul giornale che accusavano le radiazioni nucleari di deformazioni pittoriche nelle sale vuote dei musei dell’immaginazione, schizzi di sborra su tavole di legno nero, le dita sul bottone di comando, il silenzio improvviso, apro gli occhi, il dottor Ballard mi guarda incuriosito dalla sua scrivania, sostanza interessante, dice con un filo di voce, non credi? Mi guardo le mani, ci sono io e il mio doppio, reazioni represse da rivoluzioni rosse, lo spettro dei colori che si amplia nei nostri sguardi, apro il quaderno nero, il dottor Ballard mi guarda da una delle pagine, sostanza interessante, dice nella mia mente, non credi?

venerdì 15 giugno 2018

Manchester #3

Nuove visioni liquide di vetro e luce che colano da geometriche finestre senza nome, le scrivanie bianche e gli arredi asettici, gli uomini erano seduti in abiti grigi e neri, le donne portavano calze velate e strofinavano i loro piedi su moquette invisibili, c’erano schedari in cui erano state inserite le associazioni mentali create dalle parole strofinare, frizione e nylon e la bava agli angoli della bocca di uno scrittore ammanettato a una poltrona di pelle rossa, impossibilitato a battere le dita sui tasti la sua immaginazione era trasformata in un labirinto di depravazioni sensoriali, i tacchi scandivano il ritmo dei processi di eccitamento su tavole di legno pitturate con vernici vittime di stupri e avanguardie, giovani folli in tute da lavoro erano stati rinchiusi in una stanza e dotati di pennelli, strumenti musicali, amplificatori, modulatori sonori, prototipi meccanici ed elettronici del secolo passato, maschere anti gas e anelli di costrizione fallici, le dottoresse in divisa e stivali entravano per controllare che le riserve di sperma fossero ancora piene, segnavano sui loro quaderni numeri e dati, poi uscivano e si sedevano davanti a dei monitor di sicurezza, si toglievano gli stivali e si facevano massaggiare i piedi da scimmie da laboratorio lobotomizzate, le strade erano ancora proiezioni di miraggi futuristici e gli scaffali erano pieni di suoni disturbanti e sinistri, gli insetti, i ragni e le farfalle erano stati catalogati e studiati, i veleni estratti da rane dai colori brillanti, i travestimenti psichedelici di un vecchio camaleonte degli anni sessanta, i tessuti che le mani cucivano perché incapaci di smettere di tremare, le voglie represse che diventavano abitudini e bisogni, tutto il tempo in cui non avevamo più parlato, i libri che qualcuno ha stampato fra le piramidi crollate nella sabbia e nel silenzio, anche questo sarebbe stato un buon giorno per affondare nei corridoi di un aeroporto, le destinazioni sconosciute inventate da schermi a cristalli di amfetamine, le pupille dilatate di un pilota dalla pelle di metallo, le giovani hostess che ti riempiono il bicchiere, puoi sentirne l’odore quando ti passano accanto e poi decollare in cieli di pure tentazioni cosmiche.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...