lunedì 28 ottobre 2019

Bryn y Blodau #8

Le scie bianche e lucenti nell’azzurro profondo del cielo erano linee che congiungevano due punti sconosciuti sulla mappa mentale del mondo. Partenze e arrivi, decolli e atterraggi, gli spazi e i tempi sospesi di un aeroporto del passato. Mi piaceva arrivare in largo anticipo, prima del volo, sedermi da qualche parte in penombra, a bere birra o gin tonic, a leggere qualche pagina di un buon libro, a scrivere sul taccuino nero, a scattare fotografie di superfici e materiali, a fantasticare, ad assopirmi nel calore delle grandi finestre con i vetri oscurati.
I ritorni da Amsterdam, quelli ancora da compiere. Nel mio cuore c’era la strana certezza che, in un modo o nell’altro, sarei andato avanti senza più voltarmi indietro e che Roma sarebbe diventata un ennesimo arrivo, una tappa intermedia di un viaggio che era ormai il mio vivere.
Le strade, le città, i volti che apparivano nei sogni, in ruoli diversi, in vecchie abitudini, in prosaiche alterazioni, speravo che la maggior parte di quelli che mi avevano conosciuto si fossero finalmente dimenticati di me, le scie bianche nel cielo, le forme luminose di enormi uccelli metallici che uomini primitivi  avevano disegnato sui muri delle caverne del subconscio, le immagini di nuovi luoghi, misteriose esistenze che mi stavano attendendo, i miei giorni non erano altro che immersioni in oceani di pura immaginazione, poi ridevo, dentro di me, una volta seduto sulla calda sabbia del presente, di tutto quello che mi capitava, delle emozioni che ancora mi colpivano, dei miei bizzarri desideri, delle fantasie erotiche, lasciavo ogni cosa disperdersi nel mio cuore, i pensieri svanire dalla mente, i bisogni sgocciolare nella terra umida e bagnata.

C’era un altro me stesso, in questo preciso istante, seduto nella sala d’aspetto di un aeroporto del futuro, un bicchiere di vino bianco ghiacciato in mano, gli occhi protetti da lenti sfumate, la valigetta nera accanto alle gambe, la precisione dei dettagli è quella che è sempre mancata alle sequenze oniriche sospirava il regista e poi dissolveva il primopiano del mio volto con una ripresa aerea di una città mai conosciuta, sarò ancora qui, a perdermi nell’asfalto della miseria metropolitana, sarò ancora in fuga, fra alberi, fiori e misticismi acidi, le pietre su cui sono inciampato, quelle che ho afferrato in un pugno e scaraventato lontano, quelle che ho tenuto strette fra le dita prima di addormentarmi, gli ostacoli che la vita mi ha regalato, perché ogni sfida diventasse nei suoi caotici intenti un’indomita dichiarazione d’amore nei confronti dell’esistenza stessa.

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