martedì 8 maggio 2012

we love drugs



Le alte torri di vetro e metallo, le scie bianche, i tagli di luce nel cielo al passaggio di un aereo. Guardare quella scia da dietro i vetri del settantaquattresimo piano, seduto su una poltrona di pelle nera, con un bicchiere di vodka e acquatonica e pezzi di lime, in mano. Posare il bicchiere su un tavolino basso di legno nero e prendere il cellulare e chiamare il tuo uomo perché ti porti le tue sostanze preferite. Un viaggio in ascensore fino al piano terra, velocemente scendi e risali e osservi il mondo in linee e movimenti verticali. Seduto ancora sulla poltrona, nell’attesa del tramonto, dei colori violacei e intanto il cielo diventava di un blu così carico da cercare un qualsiasi modo per ricreare quel colore, sulla pagina bianca di un quaderno, attraverso l’elaborazione elettronica o meglio ancora nella tua mente, riprodotto in una visione, dopo l’assunzione della sostanza.

Le tre di mattina e le luci della città. Come moltitudini di scintille. Densità elettrica e pulsante. In volo sulle strade. Planando sulle voragini che si aprivano dentro i tuoi occhi. Vedevi e sognavi. Lungo il perimetro della visione i limiti erano malleabili e morbidi, si scioglievano e si trasformavano in nuove forme, accendevi un candela e il sole appariva.

Nel silenzio di una stanza bianca e calda. Nel silenzio di una stanza blu. Ti guardavi intorno senza riconoscere quello che vedevi, gli oggetti erano familiari ed estranei, erano vicini e impossibili da raggiungere, i colori si mescolavano, viaggiavano veloci le luci della città lungo le sinapsi del tuo cervello. Di nuovo notte. E giorno. E notte.

La pioggia che cadeva. L’idea folle di essere in un acquario.

Il suono ovattato che segnava la fine del

Giorno.

E notte.

Hai aperto il frigorifero bianco. Hai bevuto l’acqua limpida.

Seduto sulla poltrona, la sostanza sulla punta della lingua.

Uno sguardo oltre le vetrate.

Torri e cielo.


Metallo, silenzio e 

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