Le alte
torri di vetro e metallo, le scie bianche, i tagli di luce nel cielo al
passaggio di un aereo. Guardare quella scia da dietro i vetri del
settantaquattresimo piano, seduto su una poltrona di pelle nera, con un
bicchiere di vodka e acquatonica e pezzi di lime, in mano. Posare il bicchiere
su un tavolino basso di legno nero e prendere il cellulare e chiamare il tuo
uomo perché ti porti le tue sostanze preferite. Un viaggio in ascensore fino al
piano terra, velocemente scendi e risali e osservi il mondo in linee e
movimenti verticali. Seduto ancora sulla poltrona, nell’attesa del tramonto,
dei colori violacei e intanto il cielo diventava di un blu così carico da
cercare un qualsiasi modo per ricreare quel colore, sulla pagina bianca di un
quaderno, attraverso l’elaborazione elettronica o meglio ancora nella tua
mente, riprodotto in una visione, dopo l’assunzione della sostanza.
Le tre di
mattina e le luci della città. Come moltitudini di scintille. Densità elettrica
e pulsante. In volo sulle strade. Planando sulle voragini che si aprivano
dentro i tuoi occhi. Vedevi e sognavi. Lungo il perimetro della visione i
limiti erano malleabili e morbidi, si scioglievano e si trasformavano in nuove
forme, accendevi un candela e il sole appariva.
Nel
silenzio di una stanza bianca e calda. Nel silenzio di una stanza blu. Ti
guardavi intorno senza riconoscere quello che vedevi, gli oggetti erano
familiari ed estranei, erano vicini e impossibili da raggiungere, i colori si
mescolavano, viaggiavano veloci le luci della città lungo le sinapsi del tuo
cervello. Di nuovo notte. E giorno. E notte.
La pioggia
che cadeva. L’idea folle di essere in un acquario.
Il suono
ovattato che segnava la fine del
Giorno.
E notte.
Hai
aperto il frigorifero bianco. Hai bevuto l’acqua limpida.
Seduto
sulla poltrona, la sostanza sulla punta della lingua.
Uno
sguardo oltre le vetrate.
Torri e
cielo.
Metallo, silenzio e
Nessun commento:
Posta un commento