giovedì 20 novembre 2014

homesick #16

Tornavo a casa passando nel tunnel sotto alla ferrovia e all’uscita il cielo sopra i palazzi era elettrico, con scariche azzurrine e silenziose in lontananza, verso le montagne. A sinistra c’era il solito accampamento di miserabili, con le loro tende, le valigie e la sporcizia, poi poco distante, tra le macchine parcheggiate, stronzi e pisciate, un deposito di bisogni umani all’aperto. Qualcuno stava fumando una sigaretta, altri giacevano immobili sui cartoni, le giornate si stavano scorciando e la vita stava di nuovo rinchiudendosi nei soliti schemi, la gabbia si faceva sentire e allora continuavo a camminare, sui fianchi delle strade, sotto le antiche mura, le macchine erano immobili, c’erano bottiglie di birra vuote per terra, alcune intatte, altre in frantumi. 

E il desiderio di masturbarsi come fosse la prima volta, le voglie del corpo erano così stupide, eppure bisognava soddisfarle, in un modo o nell’altro e ci piaceva la violenza a noi animi turbati e un paio di frustate non facevano mai male, certo, la cosa si sarebbe potuta anche vivere con un po’ più di ironia, ma di questi tempi era difficile ridere, farlo veramente, senza che le risate uscissero fuori malate e compulsive, mi facevano orrore quei suoni e nel posto dove lavoravo ne sentivo pure troppe di quelle scariche nervose.

Il posto dove lavoravo, i luoghi dove avevo lavorato, nei centri di accoglienza per rifugiati politici e richiedenti asilo, a fare lezioni di italiano in sale dove altre persone pranzavano, ruttavano, si accanivano contro cosce grigie e viscide di pollo e tutti quei rutti e quel rumore quando giusto giusto stavo provando a spiegare due cazzo di regole di grammatica a un gruppetto di studenti proprio non li sopportavo e un paio di volte mi sono usciti fuori degli urli anche a me, che a quelli che stavano mangiando gli si è gelato il sangue nelle vene e allora c’è stato silenzio, un bel silenzio e quelle due stronzate che gli dovevo dire, ai miei ragazzi, gliele ho dette in santa pace e poi i giorni d’estate, seduto su un divano lurido e sfondato, ad attendere che qualcuno si degnasse di venire ad imparare qualche parola della mia lingua, ma questi la voglia di studiare non ce l’avevano proprio e neanche potevo biasimarli, ma io stavo lì e un lavoro lo dovevo pure svolgere, avrei potuto insegnare qualcosa alle mosche che mi ronzavano intorno e che non avevo neanche il coraggio o la forza di uccidere per quanto ero stanco e deluso e svogliato e allora aspettavo che le ore scorressero e se la sera prima mi ero sfondato di canne a dovere quell’attesa era ancora più pesante, con il calore e quell’odore perenne di cibo scadente. 

Ci ho passato più di un anno e mezzo in quel centro, in un hotel dimmerda a Guidonia, una volta alla settimana, erano giornate buttate nel cesso, letteralmente e il tempo sprecato non finiva lì, certo, mi piaceva stare in classe con i ragazzi e le poche ragazze quando c’erano le condizioni giuste, una parvenza di scuola, una lavagna, delle sedie, ma le energie finivano sempre per esaurirsi e il giorno dopo c’erano ancora cose da dire e ripetere e tu non ce la facevi più perché queste persone ti succhiavano via tutto, era un bel dare, un bel condividere, ma qualcosa, cazzo, te la dovevi pure tenere per te, un briciolo di intimità, di vita segreta, un angolo nascosto e ben protetto dove startene a fare le cose tue. E allora me li sono iniziati a riprendere quegli spazi, prima nella mente, poi nei luoghi, poteva essere una stanza, la macchina, il cesso, un albero, un posto dove non vedessi nessuno, dove nessuno mi disturbasse con i suoi problemi, le sue lamentele, il suo perenne bisogno di aprire bocca e dargli fiato, perché stare ad ascoltare gli altri proprio non mi è mai piaciuto, soprattutto quelli che ti raccontano subito ogni cosa della loro vita, prendendosi un’intimità che non esiste, che nessuno gli ha dato il permesso di avere e loro ti stordiscono, si scaricano e allora con il tempo ho cominciato a starmene per i fatti miei, magari un buongiorno e un buonasera, giusto per un minimo di educazione e poi basta, perché è così calmo quel luogo speciale che c’ho dentro che alla fine ci sto meglio da solo o se incontro qualcuno che sente le cose come me allora glielo faccio vedere questo angolo luminoso e curato e ci passiamo le ore insieme, in tranquillità, in silenzio, qualche volta parlando, ma qui le parole diventano reali e hanno un sapore, sfumature e odori, musica e gioia e fluiscono da uno all’altro che è una bellezza e poi tutte ‘ste donne che ti girano intorno, sono ovunque dentro quei palazzi, quelle stanze e prima sono i sorrisini e le strizzate d’occhio e come si divertono quando le fai ridere, si illuminano, si sentono vive e ne vogliono sempre di più di questa energia, di questa vita e le devi guardare perché così si credono reali e dopo un po’ sto giochetto non è neanche più divertente, perché dietro non c’è nulla e anche loro ti rubano quello che ti splende dentro e se lo tengono per loro, egoisticamente, ci si abbelliscono, ma non c’è scambio, non c’è niente, dietro quel circo di capelli tagliati, di vestiti diversi, di cambi di acconciatura e allora mi sono rotto i coglioni e me ne sono tornato a stare per i cazzi miei.

Adesso piove e ho chiuso le finestre, perché il rumore è troppo forte, oscilliamo fra queste ombre furtive, il sentiero dorato è ancora lì davanti, potessi vivere scegliendo forme, luci e colori, potessi vivere così, senza gli occhi avidi della gente intorno, nel riflesso abbagliante delle mattine del mondo, senza sapere più, finalmente, dove andare.


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