venerdì 16 febbraio 2018

senza titolo


C’erano nuove divinità che gli occhi adoravano e avevano forme triangolari e occupavano lo spazio fisico come miraggi di piramidi di vetro e metallo e gli schiavi camminavano nelle strade e obbedivano alle scritte sui muri mentre le bocche aperte, affamate e voraci dei bancomat vomitavano soldi e carte di credito. C’erano serie di miserabili inginocchiati per terra, la fronte a toccare il cemento, i tunnel sotterranei come intestini che digerivano vagonate di persone dirette verso il loro lavoro per poi rigurgitarle nel grigio dei vapori, tra le gocce acide di pioggia e i neon che lampeggiavano in ipnosi elettroniche. Vagavamo alla ricerca di un senso che desse una possibile spiegazione a questo caotico disperdersi, avevamo osservato con attenzione gli sbagli che qualcuno aveva annotato nella nostra personale cartella clinica, prima di rinchiuderci in una stanza, per otto ore al giorno, seduti davanti ad uno schermo a battere le dita sui tasti, a rispondere al telefono, voci registrate che ci prendevano per il culo e rubavano il nostro tempo, firmavamo contratti per essere ingabbiati e dalle sbarre ci accontentavamo delle poche carezze di luce che venivano a trovarci e dimenticavamo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, che c’era un altro mondo, pieno di colori e voci diverse, ognuna con la sua melodia di suoni e armonie, dimenticavamo perché ci era stato donato questo respiro, il perché delle stelle e degli sguardi dell’alba eppure era ancora tutto qui, qualcosa che potevamo toccare e sentire e osservare in ogni secondo, questa fluida e lucente meraviglia, questo infinito trasformarsi, c’era una libertà che nessuno aveva più il coraggio di accettare, perché significava ammettere che quello che possedevamo, tutte le auto, le case e i televisori, non erano altro che nulla, una prigione di false idee e bisogni, poi ci sono i miei occhi che osservano le nuvole nel cielo, i fiori sbocciare, il sole nascondersi tra le foglie di un albero, il mio cuore che si colma di gioia e tristezza, perché nulla di quanto è esistito è stato mai nostro eppure tutto questo ci è sempre appartenuto.

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