lunedì 27 ottobre 2014

homesick #15

Uno la volontà ce la metteva pure, anzi, ce la metteva più di ogni altra cosa, perché sennò sarebbe stato un incubo il solo pensiero di alzarsi tutte le mattine per andare in una stanza di dieci metriquadri, senza finestre e senza illuminazione naturale, a spiegare sempre le solite quattro stronzate a ragazzi africani, arabi e asiatici e quando l’ossigeno veniva a mancare, perché c’erano troppi polmoni impegnati nello stesso lavoro e troppe bocche che provavano a parlare un’altra lingua, spesso con scarsi risultati, era alla volontà che ti attaccavi. Sapevi che c’era il piacere di stare con loro, ma non sempre, tante volte si, ma non sempre, perché alcuni giorni te ne saresti stato per i cazzi tuoi, in silenzio e in solitudine e quando fuori da quel buco vedevi che c’era una bella giornata, con la luce di ottobre e l’aria buona e sapevi che c’erano sorrisi di ragazze in una villa ad aspettarti o una sdraia sotto i grappoli maturi dell’uva o una sedia nel sole di una spiaggia desolata o altre migliaia e migliaia di cose diverse da fare o più semplicemente nulla con cui impegnare il proprio tempo, era la volontà, la volontà solo a farti stare là dentro e neanche i soldi, alla fine, perché altrimenti eri soltanto un’altra puttana, i soldi un poco, per tirare avanti, per vivere, per mettere da parte qualcosa, con la speranza che diventasse un bisogno concreto il desiderio di andarsene, di partire, di sganciarsi da questa vita. 

E una volta fuori, salutati i ragazzi, ti incamminavi verso casa e scivolavi tra le persone, come sempre, una busta in mano, qualcosa da mangiare per cena, meglio se c’era una bottiglia di vino che ti aspettava in cucina e camminavi e guardavi quello che avevi intorno e ti chiedevi il momento in cui sarebbe stato di nuovo tutto tuo il tempo e il modo di riempirlo e poi finivano pure le domande perché c’era una luce meravigliosa che stava morendo e ti sedevi su una panchina, mentre la notte, avvolta di stracci, si chinava a baciarti sugli occhi.

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