giovedì 19 settembre 2019

Bryn y Blodau #6

Buie sale cinematografiche del passato, i volti decrepiti di attori dimenticati, il fumo delle sigarette turche in spirali orientali attraverso il cono di luce di un proiettore oppiaceo, qualcuno mi passa una canna, poi una lettera a cui non risponderò mai, le famiglie allargate che nessuno aveva più rivisto, il fuoco acceso sulla quieta riva di un fiume, i movimenti delle fiamme e quelli sulla superficie dell’acqua mi sembravano simili, c’erano infinite corrispondenze che giorno dopo giorno andavano scoperte e lasciate libere di scorrere nella mente, per ritrovare arcaiche forme di pensiero che il linguaggio e la tecnologia avevano usurpato e quasi distrutto. 
Samara accende la pipa e benedice la vita e quello che essa racchiude, dalla nascita alla morte, il suo volto che attraversa tutte le fasi di un’esistenza, gli anni e i cambiamenti, il suo respiro, il suo corpo, la luce dell’alba che ci raggiunge sul letto nel quale siamo ancora abbracciati e poi vallate, alberi, il cielo e i suoi colori, le foglie e  i fiori che tornano a sbocciare, la terra, la sua meraviglia e la mia, ogni volta che la osservo, ovunque, intorno, dentro di me, nella pelle, in ogni possibile percezione, in ogni minima creazione della mia fantasia, l’immaginazione al potere avevano urlato studenti rivoluzionari incazzati e impazziti ed essa era qui, in questo momento e in quello che lo avrebbe seguito, nel tessuto visivo di nuovi fili d’incanto, le calde visoni pulsanti e geometriche indotte dal peyote, le piume che ciondolavano da un soffitto di legno circolare, in strutture architettoniche inventate dall’inconscio.
Tim e Bev fumavano hashish, parlando e bevendo té nero davanti alle icone medievali di martiri e santi, Anthony discuteva in cucina di possibili utopie sociali da inscenare come rivolte urbane, le piccole isole di resistenza quotidiana, le oasi di stili di vita alternativi sarebbero diventate arcipelaghi di realtà parallele, avevamo ancora scorte di acido lisergico nascoste sotto le assi di pavimenti oscillanti, suggeriva Dye dalla sua poltrona di serpente, i volti di vecchi hippies sorridevano dalle crepe di tronchi centenari, saremmo ancora sopravvissuti, sembravano dire, in un modo e in quello che poi lo avrebbe completamente ribaltato, le nuove droghe elettroniche creavano dipendenze veloci e difficili da controllare, gli schermi sono ovunque, urlava Sarah, correndo nuda fra i boschi, diverse dimensioni cognitive, scarsa tolleranza, flussi di dati nocivi iniettati direttamente in zone inesplorate del cervello, i bambini e gli adolescenti erano l’obiettivo primario, avremmo controllato i loro giovani neuroni urlanti durante le crisi di astinenza, fantasticavano sadiche le Multinazionali del Pensiero Virtuale nei loro laboratori di depravazione sotterranea.

Ian studiava tecniche di difesa psichica nei suoi vestiti strappati e sporchi, lo scrittore prendeva appunti e creava teorie di sovversione dadaista, un urlo, la chitarra, i pennelli (su per il culo, gridava di gioia un equilibrista a cazzo duro), le tele, i materiali plastici, le penne, i quaderni, i tagli, le forbici, le fotografie, i disegni, le immagini, le sequenze, il suono, la poesia e l’ebbrezza, un’ultima parola, poi di nuovo nei boschi, un corpo esposto, radiante e raggiante, una figura fuggita da un’orgia dionisiaca, ubriaca e perduta fra i rami spezzati di sogni boschivi e risate d’argento di giovani ninfe danzanti.

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