giovedì 23 febbraio 2012

Abuja


Bevevamo liquori scadenti dentro la stanza di un centro di accoglienza, perché soldi non ce ne erano, come non c’era niente da fare durante il giorno, nell’attesa che qualcuno venisse e ci dicesse se potevamo restare o no, se i nostri documenti erano pronti o no. E passavamo le giornate stesi sul letto, la finestra aperta, il caldo afoso che stampava il corpo sulle lenzuola. Giornate passate con una bottiglia che girava tra le nostre mani, i ricordi di una terra lontana, le nostre madri, donne, mogli, amanti, figlie camminavano sul suolo di città e paesi che forse non avremmo mai più rivisto.

Il cazzo duro nelle mutande e nessuna donna da accarezzare. Il cibo scadente, l’alcol nello stomaco. La mattina, gli occhi acquosi nello specchio mentre ti fissavano, quasi a dirti, che cazzo combini?

Dovevamo imparare la loro lingua, ma per chiedere cosa? Nessuna delle nostre richieste sarebbe stata soddisfatta, tanto valeva sentire il dolce suono delle nostre parole e i profumi e gli odori che da esse si sprigionavano. Il cielo e il sole e la terra arsa e le notti illuminate dai fuochi degli accampamenti.

Ancora la bottiglia in mano. Qualcuno nella stanza aveva messo del reggae, pulsazioni nel basso ventre, respiri lenti, tra le ombre, mentre le tende si muovevano come vele di navi nella brezza della sera.

Mi affaccio alla finestra e accendo una canna d’erba. Gli altri si erano dati da fare e dopo tre mesi avevano già messo su un giro niente male.

Il dolce corpo sudato di una donna amata stesa sulla spiaggia. Fumare alle dieci di mattina sotto i raggi già caldi del sole.

Lei portava vestiti fatti con stoffe lunghe e colorate, le mani e i piedi dipinti. Gli occhi profondi e scuri. 

La musica e le danze. Rimanevo a guardarla muoversi, le oscillazioni del bacino, i movimenti delle dita.

Qualcuno bussò alla porta. Una nuova bottiglia iniziò a girare. Qualcuno rise, qualcuno rimase in silenzio.

Diedi un sorso e attesi.

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