domenica 14 settembre 2014

homesick #14

Sentivo i colpi d’argento di una campana, venivano dalla chiesa che si trovava davanti alla piazzetta in cui i ragazzi arabi continuavano a vendere erba o fumo. Sentivo i colpi d’argento di una campana e il tempo stava passando e io ero ancora stordito dalle canne che mi imprigionavano in solitari giochi sessuali e creavano dimensioni mentali e fisiche da cui, poi, non riuscivo più a fuggire. Erano luoghi fatti di fantasie proibite, le immagini pornografiche sul computer davano forma e sostanza a queste fantasie, le immagini viste sullo schermo si imprimevano nella mia mente, lasciandomi poi con un continuo bisogno da soddisfare. La mente creava la sua gabbia poi buttava via la chiave e potevi rimanere intrappolato per sempre nelle tue ossessioni. L’erba gettava il mio corpo in uno stato di esaltazione sensuale, il corpo si abituava subito agli stimoli che riceveva e l’abitudine diventava dipendenza, il passo successivo era la ricerca continua di qualcosa che soddisfacesse quel desiderio, le istruzioni per entrare mi erano chiare, quelle per uscirne più difficili da trovare. 

Lentamente, nel corso degli anni, avevo provato a liberarmi da tutto quello che creasse dentro me stesso un senso di bisogno, fisico o meno. Fossero uomini, donne, amici, oggetti, sostanze, cibi o alcolici. Ogni cosa che finivo per ricercare per stare meglio era dannosa e da essa dovevo allontanarmi. Un passo dopo l’altro. Un pensiero alla volta. 

Nei momenti in cui ero completamente vuoto mi sentivo libero, respiravo e seguivo il flusso della vita. Lei sapeva dove condurmi,  mi  passava attraverso, non la trattenevo e i problemi scomparivano. Ogni volta che un desiderio tornava a turbarmi mi allontanavo da quel flusso e iniziava di nuovo l’inquietudine, il bisogno. Non c’era una soluzione definitiva. Ogni giorno, la vita, richiedeva di trovare un punto di equilibrio, dovevo esserne consapevole, sentire ogni minimo cambiamento dentro me stesso, ogni vibrazione, ogni spostamento di energia interiore, era tutto collegato ed erano così meravigliosi i momenti in cui ogni dettaglio era nel giusto ordine e io tornavo a fluire, sentivo la vita dentro di me, pura e incontaminata e volevo che quella stessa purezza fosse ovunque. 

Da fuori, dal mondo esteriore, dal lavoro, dalla città e dalle persone che mi circondavano arrivavano sempre impulsi negativi da cui dovevo difendermi, sprecando energie e questo stava diventando sfiancante, dovevo trovare un modo o un mondo dove quello che avevo dentro e quello che esisteva fuori di me diventassero la stessa identica cosa. 

Sotto gli effetti della psilocibina avevo provato, in un parco di Amsterdam, con i miei sensi, la mia mente e con tutto me stesso che questo era possibile. Il mio cuore aveva smesso di sanguinare, le ferite si erano rimarginate, quella sostanza era stata la medicina migliore che avessi mai preso.


I colpi d’argento di una campana, i giorni dello stordimento diventano echi lontani, come quelli dell’estasi e della caduta, seduto o sdraiato sul mio letto mi limito a respirare, la libertà ha un sapore così dolce, aria che entra, aria che esce e null’altro da fare, la vita che muore e continua in tutto il suo fluido splendore.


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