martedì 7 aprile 2015

Haight-Ashbury (2006)


Eravamo quattro o cinque persone dentro una stanza. Le pareti erano colorate con strani disegni di fiori, animali, arcobaleni, funghi. Oltre a delle scritte enormi che si annodavano su se stesse. Ero nella stanza da quasi una settimana o forse di più (difficile dirlo) e passavo il mio tempo (quando non ero sotto l’influsso di qualche droga) ad osservare i fiori o suonare la chitarra o recitare qualche verso di alcune poesie che avevo scritto i mesi precedenti. Avevo un intero libro nero pieno di poesie scritte dalla mia mano. Parole che seguivano parole che seguivano altre parole.
La stanza serviva per dormire (quelle rare volte che ci riuscivo), per lavarsi e per mangiare. Il resto della vita era per le strade. Era chiacchierare con le persone, fumare erba insieme, scopare, rimanere distesi sotto la luna, assistere sotto acido ad un concerto.
Nella stanza non ero sicuro che le persone fossero sempre le stesse. Le facce mi sembravano ogni volta diverse, anche le parole o i gesti, ma speravo con il tempo di farci l’abitudine e quindi di poter riconoscere qualcuno o qualcosa. Ogni giorno mi presentavo con un nome diverso. E anche gli altri sembrava che si fossero cambiati nome e faccia durante la notte. O forse più semplicemente stavano facendo il mio stesso gioco.
Quando mi alzavo, di solito sempre con qualcuno al mio fianco (che fosse uomo o donna aveva veramente poca importanza), mi fumavo sempre una sigaretta. Poi mi lavavo, tiravo su qualche vestito e poi bello e colorato me ne andavo per le strade.
Il sole era la divinità più importante.
Arrivavo al parco dove mi bastavano dieci minuti per rimediare un pò d’erba, trovare qualche ragazzo o ragazza che stesse già fumando e mettermi accanto a loro a rollare il mio spino personale. Che poi naturalmente avrei passato al mio vicino, come lui avrebbe fatto con me.
Quando avevo voglia di stare un pò da solo mi alzavo e facevo due passi per il parco. C’era sempre qualcuno che suonava. Chitarre, bonghi, flauti, armoniche. La musica era quella dei doors, di jimi hendrix, dei grateful dead, dei jefferson airplane, di bob dylan.
Si parlava di vibrazioni, capivo esattamente cosa significasse quel concetto, ma non ero sicuro che quelli che non avevano mai provato l’acido potessero capirlo.
Le capsule di LSD avevano nomi esotici. Purple haze, Orange sunshine, White lightning.
Venivano vendute come se nulla fosse, non era difficile trovarle e il viaggio era assicurato.
Cercavo di non farne più di un paio a settimana, ma a volte non dipendeva dalla mia volontà, a volte iniziavo a viaggiare senza nemmeno saperne il motivo (si vede che qualcuno aveva sciolto un pò di LSD nel bicchiere d’acqua o di punch che stavo bevendo).
A volte mi ritrovavo in luoghi sconosciuti, con persone sconosciute. Avvinghiato a un corpo o riverso in una pozza di vomito o magari sdraiato su una panchina. Non era difficile fare amicizia, c’era sempre energia nell’aria, voglia di provare nuove esperienze e conoscersi.
Un giorno in cui ebbi più soldi del solito (avevo aiutato ad organizzare un concerto, mi avevano pubblicato alcune poesie su una rivista, avevo dato una mano ad un amico a vendere dell’erba) presi in affitto una camera in un piccolo hotel. Avevo finalmente una stanza tutta per me, pagai un mese di affitto anticipato. I soldi finirono subito, ma per lo meno avevo la certezza che per un mese me ne sarei stato per i fatti miei.
Avevo bisogno di solitudine per scrivere qualcosa di nuovo e poi più che altro avevo bisogno di riposo. Il mio corpo accusava il continuo trangugiare droghe, cibo di merda e alcolici e chiedeva una piccola pausa.
Con i pochi soldi che mi erano rimasti (dopo le spese della stanza) comprai parecchia frutta, parecchie bottiglie d’acqua, un paio di libri in edizione economica e un quaderno sul quale scrivere. Progettai di mangiare soprattutto verdura e pesce, ma dato che non avevo molti soldi era una cosa difficilmente realizzabile. Sarei andato avanti a frutta (arance più che altro) e poi la vitamina c era indispensabile per uno psiconauta.
Dopo due giorni di isolamento zen ero di nuovo per strada. Perdio mi dicevo, hai ventanni, due giorni sono più che sufficienti per il riposo, devi vivere, vivere, fare tutto quello che ti passa per la testa. Non me lo ero stato a ripetere due volte, la lucidità mentale (con tutti i suoi pensieri razionali, le sue preoccupazioni) già mi infastidiva, trovai qualcuno che mi vendesse un pò si mescalina, poi raggruppai un paio di amici e ci andammo a fare un viaggio nel deserto.
Passammo tutta la sera e la notte e l’alba persi nelle nostre visioni. Tornati sulla terra, ci rimettemmo in macchina e qualcuno guidò fino alla città.
La mia stanza era ancora lì. Entrai e sbucciai un paio di arance, provai a scrivere qualcosa ma niente da fare. La sera avevo sentito che ci sarebbe stato un concerto di hendrix, decisi di andarci. Rimorchiai un paio di ragazze, ci facemmo di acido e andammo a sentire il dio.
Quella notte capii la vera potenza della musica di jimi, quando bruciò la sua chitarra mi sentii parte di una cerimonia, senza contare le visioni che quella scena mi provocò. Le fiamme erano alte e assumevano sempre forme diverse, ad un certo punto ebbi anche paura, pensando che l’intero salone dove si teneva il concerto stesse andando a fuoco. Ma poi il sorriso di una delle ragazze mi rassicurò.
Dopo il concerto le portai in camera e facemmo una stupenda orgia in cui godetti come un pazzo. La mattina dopo, mentre le vedevo ancora addormentate nella stanza, scrissi due lunghe poesie. Le firmai e mi misi di nuovo tra i due angeli.
Quando finì l’affitto della camera stava per finire anche l’estate e io dovevo muovermi di nuovo, presi su tutta la mia roba (non molta a dire il vero) e mi incamminai lungo la spiaggia per vedere il mio ultimo tramonto (avevo ancora un pò di mescalina che avrei consumato quella notte stessa). Sarei ripartito senza niente. Ormai ero dell’opinione che non avevo più bisogno di cercare le droghe perché erano loro a trovare me.
Ebbi delle visioni meravigliose quella notte e il mio viaggio fu molto riflessivo, mi persi in molte considerazioni, credetti di avere afferrato parecchi significati, mi sentivo illuminato da qualcosa di divino, non sapevo esattamente cosa fosse, la mia coscienza aveva ottenuto qualcosa di sacro, forse solo la semplice consapevolezza della propria infinità.
Quando mi svegliai la mattina, feci dei lunghi respiri di ringraziamento e mi incamminai lungo la sabbia.
La luce tenue dell’alba illuminava quel che restava delle mie impronte. Mentre il mare, dietro di me, dolcemente le cancellava.




Nessun commento:

Posta un commento

freewheelin' #82

  Le notti diventavano più brevi e il sonno si popolava di sogni e fra le loro storie c’eri anche tu, il tuo volto e il tuo corpo ma non i t...