Non
si arrivava da nessuna parte. A trattenere desideri e bisogni, a lasciarli
esplodere nei giorni di riposo, settimana dopo settimana, creandosi un sistema,
un metodo, poi le cose ricominciavano, a volte più brutte di prima, nulla era
cambiato, tutto si ripeteva, le passeggiate della mente, la portavo a pisciare,
legata al guinzaglio, perché non scappasse via. La fotografia di una stazione
ferroviaria, il vapore scomparso dei treni, un’altra fotografia, i colori che
sfumavano nel caldo e nell’ocra, tenevi un bambino fra le braccia, l’immagine
sacra di una giovane donna, il suo sguardo dolce, fisso nel mio, le notti che
cercavano l’alba, il respiro profondo dei corpi abbracciati, i tuoi occhi erano
tornati a sorridere, ce n’era di bellezza nel modo in cui mi guardavi, c’erano
tutte le donne della tua famiglia in quegli sguardi, non si arrivava da nessuna
parte, soliti pensieri che girano a vuoto, il futuro e i programmi, era già
tanto toccare il domani con un sorriso mite sulle labbra, ce ne sarebbero state
di cose da fare – pesava ancora il
passato? Gli errori e gli sbagli? Potevamo anche iniziare tutto da capo,
quello che mancava era la giovinezza, non perché fosse necessaria ma perché se
l’erano portata via con l’inganno, così come l’energia, la voglia di scoprire,
un rimedio contro la malinconia delle illusioni sbagliate, piccoli passi, fino
al letto, in cucina, da una sedia ad un’altra, rimanere ancora abbracciati e
lasciarsi trasportare dalle onde, ricordi, spiragli di luce, parole sussurrate,
echi e lontananze, i fili d’argento tra i tuoi capelli, a intrecciare storie
che parlino di te.
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