I
ricordi che l’estate portava con sé ed erano i colori, gli odori e i suoni a
rivelarli. Nella mente dello scrittore c’erano percezioni fluide come i respiri
che il giorno offriva ai suoi amanti, c’erano i sensi che coglievano
ininterrottamente i segreti che la realtà svelava e il vecchio Monet, seduto
davanti a un canale, con la sua tela e i pennelli, a dipingere quadri fra i
riflessi tremolanti delle ninfee sulla superficie dell’acqua e i loro fiori
pronti a sbocciare.
Guardavamo
gli occhi delle giovani ragazze, anche loro pronte a dischiudersi, lasciavamo
intatti i nostri momenti di gioia e spargevamo sui pavimenti i frammenti della
paura, come pezzi taglienti di bicchieri mandati in frantumi durante sbornie
notturne in cui erano i sentimenti a parlare e discutere, senza controllo,
senza freni emotivi che li trattenessero, senza inibizioni e incertezze a
ingabbiarli. C’erano stanze che la notte costruiva nel vuoto dei sogni e così
tanti incontri e dialoghi e immagini fotografiche che qualcuno aveva scattato a
nostra insaputa. Camminavo nudo in un bosco, inseguito da pensieri e
ossessioni, un corpo osceno che si nascondeva tra gli alberi, fra sussurri,
fruscii e carezze di luce. Un uomo parlava di pace dal suo divano bianco, la
felicità senza motivo di un bambino. Tutti i momenti che non sarebbero più
esistiti, perché sarebbero finiti i musei del passato da distruggere, sala dopo
sala, gli occhi indemoniati della nostra personalità, chi eravamo? Chi avevamo
creduto di essere? Uno specchio che non raccontasse più bugie, ogni storia che
abbiamo inventato solo perché la verità fosse un’altra, ci abbandonavamo su
lenzuola di oppiacei perché non ci fossero risvegli alcolici ad attenderci, lo
sentivi ancora il bisbigliare dei muri, poi il suono muto di un’idea, gli anni
in cui da solo hai affrontato le finestre di metropoli che si dissolvevano
sotto la pioggia, le piramidi di vetro, le divinità sacrificate nelle vene del
nulla.
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