giovedì 10 maggio 2018

Birmingham #4

Trascorrevo le mattine nella libreria della città, era un edificio futuristico, linee e circonferenze che si intersecavano sulle facciate dei tre blocchi che ne costituivano i diversi piani, cromatismi azzurri, ardesia e gialli ed echi cilindrici a suggerire storie perdute di antiche navi e vecchi marinai. Intorno alla struttura principale c’erano pavimenti con geometrie di mattonelle arancioni e nere, reticoli psichedelici che vedevo pulsare e muoversi, alcune volte, quando gli effetti di certe sostanze erano ancora in circolo. C’era una zona con divani e poltrone, al secondo piano e mi sedevo lì a leggere un libro o un giornale e a bere una tazza di caffè. Intorno a me erano seduti altri miserabili, li riconoscevo subito dal volto e dai vestiti, perché erano simili ai miei, se ne stavano in silenzio, senza avere nulla da fare, la libreria era un buon posto per passare il tempo ed era gratuita e accogliente. Ogni tanto mi mettevo a scrivere, seduto su uno sgabello, davanti a una delle grandi vetrate. Osservavo la città, i palazzi, il cielo grigio e bluastro e le parole che si susseguivano sul quaderno nero, la mia mano che si muoveva da sinistra verso destra, automaticamente, trasformando il flusso mentale in linguaggio, sembrava una cosa semplice e naturale, chi aveva inventato questo modo di ricostruire e manipolare la realtà attraverso segni e combinazioni di essi? C’era la costante possibilità di ricreare tutto quello che mi circondava attraverso il mio personale punto di vista o semplicemente destrutturarlo e dargli un nuovo aspetto che fosse il linguaggio a modellare, ma non c’era mai niente di studiato o imposto in questo spazio creativo, erano la pura intuizione e la libera immaginazione a dare nuove sembianze al mondo, io mi limitavo a un processo meccanico, quello di mettere le parole su un foglio in un certo ordine.
Una ragazza orientale si era seduta sullo sgabello accanto al mio, aveva tirato fuori il suo computer dalla borsa e si era messa a studiare. Aveva una gonna corta e aveva accavallato le gambe dalla mia parte, se giravo la testa potevo osservarle l’interno delle cosce. 
Distrazioni erotiche e scenari sessuali come copioni sul punto di essere iniziati. La ragazza mi ha lanciato uno sguardo quando si è accorta che le stavo fissando le gambe e me lo ha fatto venire duro con i suoi occhi, ha arricciato le labbra e si è tirata un po’ più su la gonna. Non portava le mutandine.
Camminavo lungo i canali e sotto i ponti, in un labirinto di odori e percezioni, suoni e colori, poi apparivano improvvisi nelle aperture urbane bizzarri palazzi, dove utopie matematiche avevano cercato di ergersi da sole, divorando il vuoto con la presunzione di possedere codici architettonici che nessuno sarebbe mai stato in grado di capire, era lo Stupore Visuale, l’ultima corrente anarchica che stava ridefinendo e distruggendo in continuazione le idee metropolitane di massa, l’individuo era stato indottrinato per secoli dai Signori dello Sguardo ed era venuto il momento di dare vita a progetti allucinatori capaci di cambiare attimo dopo attimo, nelle infinite ragnatele che il cervello tesseva per catturare una qualsiasi dimensione in cui muoversi.
Mi ero seduto su una panchina e avevo stappato una lattina di sidro, la strada era lucida e c’erano barche ormeggiate lungo una serie di piccoli moli, la mia ombra scattava delle fotografie, cercando di cogliere il mio riflesso, non sempre ci riusciva, era il suo modo di scambiare le parti e condurmi in una delle stanze segrete in cui poteva farmi compiere i suoi rituali. 
La ragazza orientale si era seduta su una poltrona di pelle nera, aveva degli stivali e mi aveva ordinato con lo sguardo di leccarglieli. Avevamo una connessione mentale e non dovevamo parlare. Ero nudo, mi sono inginocchiato e ho obbedito al suo comando. Si divertiva a vedermi con il cazzo duro davanti a lei e a colpirlo sulla punta con il suo frustino.
I parcheggi sotterranei dove vagavo nelle ore di pioggia, ascoltando i suggerimenti delle macchine parcheggiate, per poi risalire in superficie e camminare attraverso le zone industriali della città, spazi ormai abbandonati, i perimetri di terra arida e le discariche circondate da reti metalliche. Alcuni vagabondi spingevano carrelli virtuali in cui avevano nascosto gli ultimi resti delle loro esistenze terrene, perché oltrepassato un certo confine non c’era più nulla di vero nei giorni e nelle ore, mi salutavano con un cenno del capo e io facevo lo stesso, poi tiravo fuori la macchinetta fotografica e iniziavo a scattare seguendo le indicazioni della luce sulle superfici. 
Un uomo di colore era fermo davanti alla serranda abbassata di un’officina in disuso, ci siamo scambiati uno sguardo di intesa, i gesti veloci, mi sono allontanato con una bustina in tasca, mi sono fermato a guardare una finestra prima di entrare in un palazzo, l’apparizione fugace di un volto, il flash di un sorriso, una porta si è aperta, ho seguito un’ombra per delle scale, aveva ancora stivali neri e un culo fasciato da una gonna che si muoveva in ipnotiche oscillazioni, il rumore dei suoi tacchi batteva il tempo degli inganni e quello delle illusioni del  mio cuore.

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