sabato 20 febbraio 2021

homesick #54

Non c’era stato molto da fare quando ero tornato a Roma, dopo quasi quattro anni passati a vagare fra Inghilterra e Galles, a fare che neanche i più saggi o idioti potevano dirlo, sicuramente mi ero mosso parecchio e lo avevo fatto anche bene, interessanti scoperte, eccentrici personaggi, onde di sostanze stupefacenti, donne amate, storie perdute, poi ero arrivato al punto in cui andare avanti e tornare indietro erano diventate la stessa cosa e quindi continuare a fuggire aveva smarrito il suo significato e ciò che esisteva al di là di esso.
Non c’era più nulla a Roma per me e forse non c’era mai stato, se non la perenne illusione di una vita in cui mi ero ritrovato e in cui ero cresciuto, di cui avevo fatto parte e dalla quale alla fine mi ero allontanato.
Niente più amici, a parte Marco, nessuno che avessi avuto la voglia di rivedere, Maria era ancora a Manchester, non mi rimaneva che riprendere a vagabondare, giorno dopo giorno, strade, stazioni, parchi, ville, piazze, la macchina fotografica in tasca e il taccuino arancione in un’altra. Le ore di luce, la terrazza della casa di mio padre, a Talenti, i bicchieri di vino, le ore di abbandono sul divano, i vecchi vinili di musica jazz, Miles Davis, John Coltrane, Joe Pass, Theolonius Monk, Chet Baker, gli appunti di un ennesimo romanzo immaginario, i punti invisibili agli altri di un’esistenza che solo le parole facevano divenire reale ai miei occhi e al mio cuore - I momenti passati con mia madre, mia sorella e mio padre, separatamente eppure come se fossimo uniti in maniera indivisibile, l’idea di una famiglia l’avevamo distrutta da tanti anni eppure lo eravamo ancora e mai come adesso mi ero sentito così vicino ad ognuno di loro, ai miei genitori specialmente, anche se iniziava a prendere forma dentro di me la sensazione che stessero invecchiando, che un giorno non ci sarebbero stati più e questa mi sembrava la liberazione ultima, per ognuno di noi, la vera e piena realizzazione di quello che eravamo, in un attimo che tutto avrebbe cambiato e ci avrebbe accolto nell’essenza  di questo infinito mistero.
Non avevo più messo piede nella zona dove avevo lavorato (Piazza Tuscolo) e in quella dove avevo abitato per un paio di anni (San Lorenzo), nessun vecchio collega, nessun coinquilino,  niente locali, pub, ristoranti, quei tempi erano spariti o sarebbe stato meglio dire che io ero scomparso da quei luoghi, che continuavano a esistere negli spazi malleabili della memoria dello scrittore, per essere rimodellati o semplicemente lasciati svanire nell’inutile ombra di un ricordo, un’immagine destinata a sfumare, una fotografia dimenticata in una scatola di scarpe nella soffitta di una casa silenziosa e abbandonata.
Ero andato a qualche proiezione stampa, avevo partecipato a un paio di festival  di film indipendenti, la tristezza e la miseria nel vedere che nulla era cambiato in questo genere di cose l’avevo dovuta soffocare con dosi massicce di alcol, mi piaceva ancora scrivere di cinema ma quell’ambiente era rimasto il solito, mi dava il voltastomaco e non ne avrei mai fatto parte.
I risvegli in letti diversi, da solo, poi i soliti teatri di fantasie masochistiche e di piaceri proibiti, questa attitudine deviata sembrava la unica che continuassi a portarmi dietro, insieme ai respiri che si trasformavano in meditazione, alla scrittura, al bisogno e al richiamo della solitudine.
Non ero andato a trovare mia nonna e dopo poco sarebbe morta, non avevo avuto il coraggio di salutarla e di vederla andar via e allora mi sono risvegliato in una nuova stazione, poi nel ventre di un’aereo e poi in luoghi sconosciuti e di quello che ho perduto non è rimasto altro che la tua persona e la tua voce che ancora mi chiama, d’estate, prima che il tramonto trasformi in malinconia la fine del giorno e del bambino che ero non ci siano altro che i miei occhi e ogni emozione dentro di essi e ogni attimo trascorso e ogni passo di questa danza che a te mi avvicina e infine allontana.

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