venerdì 16 gennaio 2015

homesick #17

Aveva iniziato a piovere più forte mentre passavo sotto gli archi di Porta San Giovanni, allora mi sono messo a correre per raggiungere il tram che stava arrivando, sono salito al volo, la camicia incollata al corpo, bagnata, non sapevo per quale motivo negli ultimi tempi la gente avesse iniziato ad avere paura dei temporali, come fossero un ostacolo o una minaccia e invece erano meravigliosi, il loro odore nell’aria, il cielo grigio e blu come un mare capovolto e il tram si è mosso ed è passato accanto ai giardini di Via Carlo Felice, dove avevo camminato alcune ore prima, mentre mi dirigevo verso il lavoro e la mattina era stata dorata, quasi primaverile e sui prati c’erano dei cani che correvano liberi, seguendo le loro scie di odori e sulle panchine di pietra sedevano alcuni miserabili che giocavano le loro povere partite a carte, per sentirsi vivi, per continuare a scommettere sul mondo quando già sapevano, dentro di loro, di aver perso tutto eppure le cose continuavano a venire e fuggire e con la pioggia arrivavano anche i piccoli bengalesi con i loro ombrelli, quasi impazziti dalla possibilità di venderli e ti giravano intorno come mosche, i piccoli bengalesi con i sandali e le ciabatte ai piedi, qualsiasi tempo facesse, poi il tram è arrivato a Porta Maggiore, dove molte persone sono scese anche se continuava a piovere, poi dopo il ponte della ferrovia sono sceso anche io e la pioggia è aumentata e allora mi sono riparato sotto le sue alte arcate nere. Lungo l’asfalto si stavano creando piccoli ruscelli e un uomo si è fermato vicino a me, con una busta in mano, ha preso una sigaretta e ha cercato di accendersela, solo che l’accendino non funzionava, ha provato diverse volte mentre con le labbra succhiava letteralmente la sua sigaretta spenta, poi qualcuno gliela ha accesa e lui ha iniziato a tirare boccate voraci, poi dalla busta ha preso una bottiglietta di plastica e ha dato una sorsata di vino scadente. Ha smesso un poco di piovere e mi sono diretto verso casa, la camicia ancora bagnata, guardavo il cielo violaceo e pensavo anche io di sentirmi vivo, anzi ero vivo, molto di più di quanto lo fossi per tutte le ore in cui ero rinchiuso nelle stanze dove lavoravo, i rapporti con le donne che passavano lì dentro si stavano logorando in maniera irreversibile, stavamo toccando il fondo, era quello che volevo, non potevano più scappare da loro stesse, ero come uno specchio in cui loro vedevano la loro bruttezza interiore, un periodo le avevo fatte splendere ma come tante altre persone mi avevano deluso e mi ero stancato di guardarle, sarebbe stato così semplice tornare in buoni rapporti, ma dovevano cambiare la loro prospettiva sulle cose e soprattutto su sé stesse. Le sentivo ridere, a volte e quelle risate erano orrende, innaturali, compulsive e false, fare finta di essere felici per non volersi dire la verità era molto triste, ma se volevano passare la vita in questa finzione erano affari loro. Alcuni giorni prima avevo avuto uno scambio di opinioni abbastanza crudo con il mio capo, eravamo passati agli insulti quasi subito e alla fine ci eravamo capiti o almeno così speravo e in alcuni momenti mi era anche venuto da ridere perché la situazione era stata grottesca, ma più di ogni altra cosa mi sentivo stanco delle facce, dei discorsi, del ripetersi lento e inutile di dinamiche che non mi interessavano, c’erano ancora i ragazzi e le ragazze che venivano a scuola e andavano bene, anche se dopo un po’ mi esaurivano anche  loro e sentivo che avevo bisogno di un distacco che non riuscivo ad avere, perché al lavoro ci dovevo andare ogni cazzo di giorno e il fine settimana non era mai abbastanza lungo e allora mi sarei dovuto riprendere tutto il mio tempo. Minuto dopo minuto.

Arrivo quasi a casa e smette di piovere. Un bengalese mi chiede se voglio un ombrello. Non lo vedi, gli dico, che il tuo dio non esiste. 


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