martedì 16 marzo 2021

Orgiva #27

Bob era morto, lo avevo visto quasi sempre seduto accanto a un muro, a bere, a leggere un libro, a parlare con gli altri tossici, ad attendere. Avevo un ricordo di lui, sul palco sfasciato del mercatino di Cigarrones, una notte, mentre cantava sbronzo davanti a un microfono, lo accompagnava una musica infernale e non avevo capito un cazzo di quello che era uscito fuori dalla sua bocca sdentata. E un ultimo ricordo, un’ultima volta che l’ho incontrato, perché c’è sempre un’ultima volta in cui vediamo una persona prima che scompaia dalla nostra vita. Bob era seduto fuori dal Dia e io stavo camminando e senza accorgermene avevo superato l’entrata del supermercato seguendo una direzione di luce&riflessi, poi ho abbassato improvvisamente lo sguardo e Bob era lì, seduto per terra, a fumare una sigaretta, ci siamo guardati, ci siamo sorrisi e ci siamo capiti subito.

Non sapevo dove mi stesse conducendo la vita, non vedevo nuove svolte, mi sembrava solo che aspettare e rimanere in disparte fossero le cose migliori da fare, accettare Sara per quello che era, abbracciare la sua presenza e la sua natura e accoglierla nel mio cuore nel suo caotico e imprevedibile manifestarsi, era una prova e molto probabilmente avrei fallito nell’affrontarla e alla fine sarei fuggito di nuovo, anche da lei.

La memoria delle valli e delle colline intorno a Orgiva pareva essersi fatta silenziosa e i cadaveri di gente uccisa a fucilate dai bastardi franchisti erano ancora sepolti e nascosti in fosse comuni disperse fra i campi, nelle grotte, nei crepacci delle montagne. Alcune volte, passeggiando lungo i sentieri, avevo avuto la sensazione di trovarmi in uno di questi luoghi, senza averne nessuna certezza razionale, era come se qualcosa nel mio cuore o in quello che restava di esso mi dicesse che qui un atto di barbarie era stato compiuto, un’azione orribile, come l’uccisione di altri essere umani, c’erano particolari dai colori intensi a indicarmi esattamente dove, poteva essere una pianta, una roccia, un albero a risplendere nel riverbero dorato del mondo e della sua sofferenza.

Vedevo vecchi concerti di Miles Davis, la notte, bevevo un paio di bicchieri di vino, mi sistemavo una coperta intorno alle spalle - Alcune mattine mi svegliavo con il cazzo duro e i coglioni gonfi, fumavo un porro, mi sistemavo fra le lenzuola, mi masturbavo senza venire.

Sara era sempre presente nelle mie fantasie.

Scrivevo sul diario arancione, provavo a farlo ogni giorno, poi passeggiavo fino all’eremo di San Sebastian, mi sedevo su una panchina, osservavo il cielo, le montagne, la luce del giorno che diveniva quella del tramonto.

Una sera ero andato a casa di Adé e avevamo fumato erba dal suo vaporizzatore, ascoltando musica, senza parlare e osservando lo svanire delle nostre illusioni prima dell’arrivo della notte.

Poi le telefonate con i miei genitori e una tristezza che non avevo mai provato prima  si stava lentamente espandendo nel mio cuore o in quello che ne restava, era la consapevolezza che un giorno loro non ci sarebbero stati più, non in questo corpo, non in questo spazio e ancora non ero pronto per dirgli addio e forse non lo sarei mai stato.

La cima della montagna era velata, alcune mattine, da nubi e misteri, mi sedevo nella posizione del loto a guardarla, poi chiudevo gli occhi e respiravo.

Io ero quella montagna.

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