giovedì 4 marzo 2021

senza titolo

 Il senso sprecato di un’esistenza te lo poteva dare il lavoro, con i suoi tempi, ritmi, condizioni. Una routine che si ripeteva negli anni, con i suoi rituali quotidiani, i codici, le barriere, i tentativi di fuga, i rimpianti e le rese.

C’erano contratti, offerti e firmati, che davano forma alle tue giornate, alle ore trascorse in un ufficio, alla farsa allestita in cambio dei soldi ricevuti, i ruoli che ti costringevano a interpretare, le maschere che ognuno indossava, perché era più facile immaginare che fosse un altro e non tu quello che si era fatto inculare e tradire.

Era una sconfitta che ci aspettava a tutti quanti e ci mettevamo pure in fila, a chiappe aperte,  per poterla ottenere, poi le umiliazioni, le menzogne, la stanchezza e infine solo quello che restava, una disillusione totale.

Era un’educazione indecente quella che ci era toccata, lapidi di bugie, interi cimiteri di nozioni stantie, lette, imparate, ripetute e dimenticate.

Una cultura abbandonata, in avanzato stato di putrefazione, senza riconoscimenti, senza meriti, senza la minima possibilità di gioire di quanto amato sui libri, fra le parole di scrittori, poeti e filosofi o tra le immagini di pittori, registi e fotografi.

Qualcuno non aspettava altro che riderti in faccia, di schernire le tue creazioni, i moti dell’anima, il loro modo di esistere su una pagina, su una tela, su uno schermo. Il loro modo di cambiare il corso dei pensieri, di alterarli, di trasformarli, di suggerire nuove idee, di toccare le profondità del tuo cuore, attraversando le zone inesplorate della ragione.

Mi ero allontanato, ero fuggito o almeno avevo provato a farlo, avevo scordato i nomi delle cose, delle persone e ne avevo inventati di nuovi, avevo dimenticato le strategie dell’attrazione, quelle degli scambi umani, mi ero ritrovato solo e perfettamente a mio agio nella mia solitudine. Erano una deriva e un abbandono che si ripetevano in cicli, c’era una maturità che mi sembrava quasi impossibile da raggiungere perché realizzarsi pienamente significava prima di tutto gettare nell’oblio e nel cesso della vita qualsiasi passata presunzione di sapere cosa stessimo facendo.

E poi tutti i momenti in cui ti sei guardato dentro e hai capito che fuori di lì non c’era nessun luogo dove andare, che eri già arrivato e che avresti potuto attendere la tua fine fra quei respiri così familiari, tra l’ultima luce del giorno e il lento rollio delle onde del mare alla sera.

C’era una quiete in ogni invisibile alba e un’eco di sofferenza in ogni inizio che altri ti avrebbero mostrato solo per il gusto di rovinarlo, non ci si poteva fare niente, non c’erano montagne su cui isolarsi, caverne in cui rintanarsi, qualcuno ti avrebbe scoperto, raggiunto, qualcuno ti avrebbe parlato e disturbato, gli inganni dell’amore, qualcuno avrebbe chiamato il tuo nome e sarebbe stato meglio non rispondere, non accettare questo crudele ripetersi di illusioni e rimanere a gambe incrociate, ad occhi chiusi, per difendere questo silenzio che ovunque protegge la nostra unica e lucente caduta, come fossimo stelle danzanti negli inquieti e infiniti misteri di un universo di fulgida e fuggente bellezza.


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