martedì 6 giugno 2017

Zachary (2009)


Mi dicono che c’è un nuovo ragazzo. Mi chiedono se lo voglia in classe. Nessun problema, rispondo io. Vado nella sala d’aspetto e lo incontro. Poi mi faccio dare un documento. Lui tira fuori la tessera sanitaria. Segno sul mio elenco, da bravo maestro, nome e cognome. Poi gli dico di aspettare che arrivino anche gli altri studenti. Lui mi sorride, esce fuori e si mette al sole. Lo guardo meglio. I suoi vestiti sono sporchi e non hanno un buon odore.

In classe faccio leggere un po' i ragazzi, poi parliamo di lavoro, poi gli do alcuni fogli per fare degli esercizi. Loro vivono nei centri di accoglienza nelle periferie romane: Pietralata, Boccea, Borghesiana, Tor Vergata. Hanno fatto la richiesta per avere l’asilo politico. La legge dice che dovrebbero aspettare al massimo un mese in quei centri, mentre la loro richiesta viene valutata. Alcuni ci vivono da sei mesi, altri da un anno. Non possono lavorare. Non hanno soldi.  Non riesco ad immaginarmi cosa facciano tutto il giorno.

Chiedo a Zachary da che centro viene. Lui mi guarda in modo strano. Capisce abbastanza bene l’italiano e anche a scrivere non se la cava male. Potrebbe fare passi da gigante e imparare la nostra lingua. Mi domando perché non mi risponda. Chiedo ad un altro ragazzo di fargli la stessa domanda in francese. Zachary è ancora titubante, poi mi dice che dorme alla stazione.

In un attimo le cose precipitano, questo nuovo lavoro, le persone che lo gestiscono, l’ipocrisia strisciante, tutta una serie di parole che quando mi vengono dette faccio fatica a capire, le mie stesse lezioni di italiano.

Zachary avrebbe bisogno di un posto dove lavarsi e dove dormire la notte, non di due ore del cazzo di lezione di italiano. E come glielo spiego questo a Zachary quando neanche io capisco come sia possibile una cosa del genere?

Il tempo riprende a scorrere. Dico ai ragazzi di aspettare qualche minuto. Salgo ai piani superiori e chiedo a chi di dovere delle spiegazioni. Puntualmente alle mie domande vengono date risposte che non c’entrano nulla. Chiedo il senso di insegnare ad una persona la nostra lingua quando le sue priorità sono ben altre. Mi rispondono che il ragazzo parla abbastanza bene l’italiano e il francese. Alla domanda sul perché lui dorma a Termini mentre gli altri ragazzi che ho in classe abbiano un posto in un centro di accoglienza la risposta è la seguente: ce ne sono stanti che dormono alla stazione. Capisco che la comunicazione non è possibile e vado a chiedere spiegazioni ad un’altra persona. Stesse risposte. E la cosa più importante di tutte: occupati solo di quello che ti compete e il resto lascialo a noi.

Torno giù in classe. Finisco la lezione.

Come posso non sporcarmi le mani? Come posso fare finta di niente? Come posso far tacere la voce che mi grida nella testa AIUTA QUESTE PERSONE AIUTA QUESTE PERSONE AIUTA QUESTE PERSONE? Come posso fermare quel vortice che mi divora lo stomaco quando sono davanti ad una ingiustizia? Come posso non intervenire adesso che sono nel mezzo delle cose, nel loro funzionamento? Come posso guardare gli occhi di queste persone e non sprofondare nella loro stessa miseria?

Saluto i ragazzi e risalgo ai piani superiori.

Intorno le solite chiacchiere: organizzazione, riunioni, appuntamenti, numeri di telefono, scadenze, contatti.

Zachary torna alla stazione.

Mi siedo alla scrivania, silenzioso, il cervello che corre veloce.

Troppo


veloce.

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