Mi dicono che c’è un nuovo ragazzo. Mi chiedono se
lo voglia in classe. Nessun problema, rispondo io. Vado nella
sala d’aspetto e lo incontro. Poi mi faccio dare un documento. Lui
tira fuori la tessera sanitaria. Segno sul mio elenco, da bravo maestro, nome e
cognome. Poi gli dico di aspettare che arrivino anche gli altri studenti. Lui
mi sorride, esce fuori e si mette al sole. Lo guardo meglio. I suoi vestiti
sono sporchi e non hanno un buon odore.
In classe faccio leggere un po' i ragazzi,
poi parliamo di lavoro, poi gli do alcuni fogli per fare degli
esercizi. Loro vivono nei centri di accoglienza nelle periferie romane: Pietralata,
Boccea, Borghesiana, Tor Vergata. Hanno fatto la richiesta per avere l’asilo
politico. La legge dice che dovrebbero aspettare al massimo un mese in quei
centri, mentre la loro richiesta viene valutata. Alcuni ci vivono da
sei mesi, altri da un anno. Non possono lavorare. Non hanno soldi. Non riesco
ad immaginarmi cosa facciano tutto il giorno.
Chiedo a Zachary da che centro viene. Lui mi guarda
in modo strano. Capisce abbastanza bene l’italiano e anche a scrivere
non se la cava male. Potrebbe fare passi da gigante e imparare la nostra
lingua. Mi domando perché non mi risponda. Chiedo ad un altro ragazzo di fargli
la stessa domanda in francese. Zachary è ancora titubante, poi mi dice che
dorme alla stazione.
In un attimo le cose precipitano, questo nuovo
lavoro, le persone che lo gestiscono, l’ipocrisia strisciante, tutta
una serie di parole che quando mi vengono dette faccio fatica a
capire, le mie stesse lezioni di italiano.
Zachary avrebbe bisogno di un posto dove lavarsi e
dove dormire la notte, non di due ore del cazzo di lezione di italiano. E come
glielo spiego questo a Zachary quando neanche io capisco
come sia possibile una cosa del genere?
Il tempo riprende a scorrere. Dico ai
ragazzi di aspettare qualche minuto. Salgo ai piani superiori e
chiedo a chi di dovere delle spiegazioni. Puntualmente alle mie
domande vengono date risposte che non c’entrano nulla. Chiedo il
senso di insegnare ad una persona la nostra lingua quando le sue
priorità sono ben altre. Mi rispondono che
il ragazzo parla abbastanza bene l’italiano e il
francese. Alla domanda sul perché lui dorma a Termini mentre gli altri ragazzi
che ho in classe abbiano un posto in un centro di accoglienza la risposta è la
seguente: ce ne sono stanti che dormono alla stazione. Capisco che la
comunicazione non è possibile e vado a chiedere spiegazioni
ad un’altra persona. Stesse risposte. E la cosa più importante
di tutte: occupati solo di quello che ti compete e il
resto lascialo a noi.
Torno giù in classe. Finisco la lezione.
Come posso non sporcarmi le mani? Come posso fare
finta di niente? Come posso far tacere la voce che mi grida nella testa
AIUTA QUESTE PERSONE AIUTA QUESTE PERSONE AIUTA QUESTE PERSONE? Come
posso fermare quel vortice che mi divora lo stomaco quando sono davanti ad
una ingiustizia? Come posso non intervenire adesso che sono nel mezzo delle
cose, nel loro funzionamento? Come posso guardare gli occhi di queste persone e
non sprofondare nella loro stessa miseria?
Saluto i ragazzi e risalgo ai piani
superiori.
Intorno le
solite chiacchiere: organizzazione, riunioni, appuntamenti, numeri di
telefono, scadenze, contatti.
Zachary torna alla stazione.
Mi siedo alla scrivania, silenzioso, il cervello che
corre veloce.
Troppo
veloce.
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