martedì 12 maggio 2020

Cigarrones #3

Il tempo era cambiato e il sole lo avevamo visto nascondersi e prendersi una pausa di nuvole fra le cime delle montagne velate, dove nei giorni precedenti era apparsa la neve, in una surreale parvenza d’inverno - in questo susseguirsi di ore inondate di luce, che sprofondavano e sparivano le une dentro le altre. Persone intorno, persone vicine, spazi interiori da preservare, respiri e silenzi in passato condivisi sembravano in questo momento qualcosa di troppo prezioso da mostrare, qualcosa da custodire con cura da qualche parte nel centro del proprio petto. Quotidiane pratiche di calma e auto controllo, lasciamo dileguare i pensieri negativi fra le ombre di notti sconosciute e fra le voci di giovani ragazze - e perché non fra le loro gambe? Suggeriva ghignante un fonico sdraiato sui bordi rosicchiati di un tappeto persiano rubato a vecchi tossici britannici - li vedevo sorridere i monaci zen mentre mi guardavano a gambe incrociate seduti nei loro templi millenari di legno e pietra, poi l’intuizione di un’essenza, di una forma, del riflesso in uno specchio vibrante andato in frantumi, milioni di milioni di schegge disperse nel vuoto che qualcuno ancora si ostinava a chiamare realtà - Paul che tagliava un pezzo di hashish nepalese come fosse burro (per quanto era fresco) sul lurido bancone del suo bar improvvisato, l’apparizione di un bicchiere inventato con del ghiaccio e brandy dentro, le lattine rosse e oro di Alhambra all’interno di una roulotte trasformata in spaccio alimentare (e di sostanze, of course) e poi il valore della solitudine, della mia solitudine, il suo valore e la sua importanza che difficilmente avrei potuto spiegare agli altri - gli atti sconsacrati di masochismo messi in scena nei miei teatri di infinite ripetizioni erotiche, pietre incandescenti sulla circonferenza di personalità deviate rapite all’esistenza, tenute in ostaggio da prospettive concentriche e falliche, una mano sul cuore, uno scudo di memorie tradite, una protezione, una carezza che lasciasse le sue impronte senza trasformarle in graffi e ferite e questi incontri di cui dopo un pò. come al solito, non me ne fregava più un cazzo e i libri finiti di scrivere e quelli ancora blindati nella mente e le poesie riposte in luoghi in cui nessuno le avrebbe trovate e tutti gli abbracci e gli sguardi e le notti di musica e alcol e ritmi selvaggi nel sangue e orchestre elettroniche nelle vene, tutte queste nuove situazioni e vecchie abitudini, occhi, gambe, mani e spalle, organi danzanti, tutte le ennesime inutili illusorie parole, le incomprensioni, tutti questi attimi io li vedo scivolare e disperdersi lungo le rughe e le linee che mi fioriscono sul volto, come fossero le lacrime che non ho avuto più il coraggio di piangere, vedo la mia stessa vita fuggire via da me, perché le corra ancora dietro, perché cerchi di afferrarla, di desiderarla e in questo apice di estremo fulgore io mi lascio cadere per terra e lì rimango ad osservare il cielo e gli alberi e le miriadi di piccole e incredibili meraviglie che mi circondano, i profili di luce, gli abbaglianti riverberi di bianco mistero, le immagini e i disegni che tornano a muoversi, qualcuno ha detto che il sole è il migliore degli amanti e solo fra le sue braccia l’illusione di poter vivere protetti dagli altri diventa possibile.

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