Non
vedi questi ondulatori moti di risa. Questo cielo nuvoloso. Questi scalini sui
quali poggio i miei piedi. Le parole che prendono forma. Nomi immaginari per
luoghi reali. La macchina sull’autostrada, le distese d’asfalto che tagliano lo
spazio, un viaggio di cemento nel moto siderale dell’universo, miglia dopo
miglia, verso la nostra meta. E le tende indiane dei nostri accampamenti, fuochi artificiali su bombolette piene di
gas, i canti muti, l’esistenza che scivola nelle ombre del tramonto. Il vino.
L’alcol che inebria le nostre lingue. E parole consumate da ventagli di
silenzio, i nostri occhi che si muovono nel buio. Conversazioni ironiche,
battute sulla vita, nessuna importanza e nessun dogma. Poi la notte e noi
sepolti nei nostri sacchi a pelo (che avevo dimenticato, inevitabilmente,
insieme ai materassini) e quindi distesi sulla nuda terra, sotto invisibili
coperte che assomigliavano a freddi asciugamani, il tintinnio notturno delle
cicale cristalline che rispondevano alle stelle, splendendo della stessa
febbrile luce. Figli di altri tempi, vagabondi borghesi senza identità. Abbiamo
nel sangue le visioni e le parole dei poeti, il coraggio dei perdenti, la
debolezza degli uomini.
La
nostra bocca asciutta attaccata a una bottiglia, le nostre mani sporche di
tabacco.
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