giovedì 21 dicembre 2017

beat #2 (1998)

Ed è in questa assenza di tempo e di spazio, nell’immobile grigiore delle nuvole, che fingo di vivere. E mi raggiungono gli aghi dei pini sotto i quali sto scrivendo, lunghe, lunghe poesie e lettere d’amore. E nell’aria c’è una strana quiete, quella dell’ora di pranzo, quando le donne cucinano e gli uomini stappano bottiglie di vino sui loro tavoli millenari, dove genitori e genitori di genitori hanno mangiato e pianto e ucciso i loro fratelli, mentre Caino lavava i piatti sporchi e si specchiava nelle acque del fiume Lete, dove tutti noi un giorno (il più tardi o il più presto possibile) finiremo per arrivare. Sulle sue rive ci spoglieremo e poi lasceremo che il nostro involucro mortale si sciolga lentamente nel buio segreto delle sue Acque.
Sono ancora seduto a programmare le prossime illusioni (un viaggio ad Aphex, ritornare a Praga) e la simbiosi di queste alterne speranze in un kafkiano rifugio di stolta umanità. Dove ho trovato uomini capaci di sentire e rimanere in silenzio? Le rocce giacciono per anni e anni sempre nel solito posto, non una vita nomade, avventurosa, un gitano appassionarsi all’essenza e allo stato delle cose, ma una millenaria riflessione zen (la ruota del Dharma ormai immobile), la nascosta e sfuggente Unità Che Tutto Unisce e un secondo dopo, l’attimo seguente a quello appena pensato, forse la fine dell’Uno e la nascita del Molteplice, della nostra vita che scorre in infinite vie (così difficile da trovare quella che ci appartiene) o forse in nessuna.

Alte e silenziose montagne, nascondete per un attimo i miei occhi e il mio corpo alla realtà, chi più falso di me o anarchico attore di questo spettacolo dorato che scorre in palcoscenici di vanità quotidiana, in una confusa e caotica inquietudine che non vuole repliche.

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