Ed è in
questa assenza di tempo e di spazio, nell’immobile grigiore delle nuvole, che
fingo di vivere. E mi raggiungono gli aghi dei pini sotto i quali sto
scrivendo, lunghe, lunghe poesie e lettere d’amore. E nell’aria c’è una strana
quiete, quella dell’ora di pranzo, quando le donne cucinano e gli uomini
stappano bottiglie di vino sui loro tavoli millenari, dove genitori e genitori
di genitori hanno mangiato e pianto e ucciso i loro fratelli, mentre Caino
lavava i piatti sporchi e si specchiava nelle acque del fiume Lete, dove tutti
noi un giorno (il più tardi o il più presto possibile) finiremo per arrivare. Sulle
sue rive ci spoglieremo e poi lasceremo che il nostro involucro mortale si
sciolga lentamente nel buio segreto delle sue Acque.
Sono
ancora seduto a programmare le prossime illusioni (un viaggio ad Aphex,
ritornare a Praga) e la simbiosi di queste alterne speranze in un kafkiano
rifugio di stolta umanità. Dove ho trovato uomini capaci di sentire e rimanere
in silenzio? Le rocce giacciono per anni e anni sempre nel solito posto, non
una vita nomade, avventurosa, un gitano appassionarsi all’essenza e allo stato
delle cose, ma una millenaria riflessione zen (la ruota del Dharma ormai
immobile), la nascosta e sfuggente Unità Che Tutto Unisce e un secondo dopo, l’attimo
seguente a quello appena pensato, forse la fine dell’Uno e la nascita del
Molteplice, della nostra vita che scorre in infinite vie (così difficile da
trovare quella che ci appartiene) o forse in nessuna.
Alte e
silenziose montagne, nascondete per un attimo i miei occhi e il mio corpo alla
realtà, chi più falso di me o anarchico attore di questo spettacolo dorato che
scorre in palcoscenici di vanità quotidiana, in una confusa e caotica
inquietudine che non vuole repliche.
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