martedì 7 agosto 2018

Noddfa Dawel #4

La luce d’oro del tramonto fra le foglie d’autunno e finalmente il tempo per scrivere,  le paure striscianti della catastrofe nucleare, le esplosioni atomiche nel cervello, la vetta scintillante di una montagna luminosa, le spinte ascensionali dell’acido, si arrivava direttamente sulla cima dell’Himalaya psichedelico, abbreviando anni di meditazione e mantra, era una porta che mostrava le possibilità della mente, l’erba e i funghi ti tenevano ancora nel bosco della psiche, alteravano percezioni e rendevano reali i tuoi discorsi con alberi, piante, foglie e fiumi.
Passavi le serate osservando un fuoco ardere, fino a quando il cielo diveniva scuro e le prime stelle apparivano, la luna era gigante sulla linea dell’orizzonte ondulato delle colline, qualcuno viveva ancora in accampamenti nascosti nelle valli, i grandi teepee, i canti e le danze rituali, mi stavo avvicinando, i primi concerti liberi erano state esperienze di condivisione e interessi comuni, poi qualcosa era cambiato, come sempre il denaro aveva preso potere: lo smercio di droghe, i biglietti, il commercio di musica e sentimenti.
Un’intera generazione aveva provato a scappare dalla gabbia che l’aspettava, aveva dischiuso scatole craniche con alte dosi di possibilità lisergiche, la realtà era cambiata e con essa il modo di starci dentro, di esplorarla, di piegarla in colori e suoni, poi le caverne oscure in cui i battiti dei tamburi divenivano quelli del tuo cuore, in cui le ombre striscianti sulle pareti si muovevano in primitive sequenze fra inconscio e sogno, in tridimensionali vibrazioni di forme e visioni. 
I monaci nella posizione del loto, seduti davanti a un muro, le nuove tribù, le iniziazioni oniriche, il luogo che dovevi cercare e scoprire per sederti e acquisire potere, i mondi che si dischiudevano come fiori di meraviglia, guardavi all’interno di una vita che mutava secondo dopo secondo e tu ne eri parte ed essenza e fluivi con essa sapendo bene che non saresti arrivato da nessuna parte, perché l’importante era soltanto lasciarsi trasportare, lontano, in profondità, oltre le barriere di inganni e illusioni che creavamo in continuazione per proteggere le nostre nazioni di egoismo, i confini erano crollati, le invasioni del subconscio erano cominciate, nelle enormi corsie dei supermercati non c’era più nulla di cui avessimo bisogno, erano solo un insieme infinito di scatole cinesi che racchiudevano il seme di una necessità che aspettava di germogliare nella pianta carnivora di una dipendenza, ci si spostava di terra in terra, per non lasciare tracce, per scomparire e riapparire improvvisamente, in campi pieni di funghi allucinogeni, gli happening e le feste per oltrepassare i bordi dell’immagine e Suzanne, silenziosa e timida, in un angolo dello sguardo a reggere uno specchio in cui nessuno si sarebbe mai più riflesso.

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