Più
passavo del tempo nel quartiere e meglio ne capivo il funzionamento, come se
dietro l’apparenza delle porte, delle finestre e delle serrande abbassate
esistesse un’altra dimensione, oscura e misteriosa, ricca di suggestioni -
camminare per le strade del quartiere quando pioveva e l’asfalto era lucido e
potevi sentire il freddo dell’inverno e gli echi dei suoi lontani racconti,
cadeva la pioggia e la guardavo illuminarsi vicino ai lampioni dalle luci
arancioni, sentivo il contatto della sostanza nella mia mano chiusa, in una
delle tasche del giaccone.
C’erano
segnali che andavano imparati, i fischi, le occhiate, la parole in codice,
c’erano stanze segrete, quelle dove compravo la sostanza, quelle dalle luci
rossastre, le stanze oscure, piene di antichi strumenti di tortura, le stanze
in penombra con i lettini per terra e le lunghe pipe cariche d’oppio - qualcuno
mi ha insegnato come entrarci, dal vecchio ho imparato a guardare con occhi
diversi, un giorno mi ha accompagnato davanti ad una porta magica, in un angolo
dimenticato tra le rovine di alcuni antichi palazzi, eravamo davanti alla porta
e il vecchio mi disse se fossi sicuro di voler entrare, di voler vedere cosa ci
fosse dall’altra parte, sei sicuro ragazzo? Mi chiese il vecchio e sorrise, io
annui senza rispondere, lui si avvicinò a entrambe le statute che sedevano ai
due lati della porta, prima da una e poi dall’altra, le statue del dio bes,
sussurrandogli qualcosa - il tempo si fermò, completamente, intorno a me, come
in un fermoimmagine mentale, tutto immobile, immerso nel vuoto, la porta si
aprì senza muoversi, una dissolvenza incrociata tra l’immagine della porta
chiusa e quella della porta aperta, adesso puoi entrare, disse il vecchio, che
cosa troverò, gli chiesi? Tutto quello che hai perduto, mormorò lui e si
dissolse in una nuvola di fumo.
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