lunedì 13 febbraio 2017

Aberporth #6 & #7



Potrei essere qui e allo stesso tempo altrove, pensava lo scrittore, sotto il getto scostante della doccia, potrei essere a casa, esattamente in questo momento, la luce calda nella stanza, il contatto delle dita sulle tendine arancioni, il pulviscolo danzante nel vuoto dorato, ci sarebbero stati gli stessi problemi di allora? Ci sarebbero state quelle insicurezze racchiuse nel corpo che aveva la tua forma? Il mare sembrava portare onde e flussi di ricordi nella sala proiezioni privata dello scrittore, la brezza e la salsedine gli facevano venire il cazzo duro di mattina e le passeggiate lo aiutavano a staccarsi ancora di più dalle ancore che la realtà buttava come esche nei suoi pensieri, qualcosa per non farti più muovere, qualcosa per trattenerti o il semplice tentativo di trascinarti altrove, luogo psichico dopo luogo psichico – una telefonata da Londra da parte di Phil, le puttane di Camden lo stavano cercando, non sapeva se per i soldi o per una poesia, anche una foto sarebbe stato un giusto motivo per scappare o cedere ad un ricatto, la valigetta nera era sempre pronta, piena di fogli di vecchi giornali, giusto per simulare un peso di denaro inesistente e ancora i piani di Ken e la serra che voleva costruire per coltivare piante di marijuana, semi di white widow nascosti nella casa della madre di Rebbecca, come se ce ne fosse bisogno, erba per soldi o erba per erba, questo era il suo ragionamento e poteva anche essere giusto una volta entrati nelle sue prospettive - le righe di coca tirate la mattina per svegliarsi ed affrontare la giornata, lo scrittore si limitava a prendere appunti e ad osservare e ogni tanto cucinava o dava una sistemata per la casa, trovava resti di immagini oniriche nascoste dietro il divano, gli angoli di una visuale che giorno dopo giorno si modificava, Phil non aveva richiamato e lo scrittore aveva deciso di piantare del timo, aveva scavato una piccola buca per terra, su un lieve pendio, qualcosa deve pur crescere qui e non possono essere solo le nostre disillusioni, pensava lo scrittore, Ken gli aveva detto di muoversi, dovevano andare in città a sbrigare un affare, quale fosse non aveva veramente importanza, la macchina era piena di avanzi di cibo, catene, seghe, giornali, vestiti e cartine, lo scrittore si fece spazio sul sedile anteriore e si sedette, Ken si accese una sigaretta prima di mettere in moto - c’erano logiche che solo il caos poteva spiegare, c’erano vite che solo le parole sapevano inventare, le finestre fischiavano di notte e così faceva il vento e i gabbiani, quando il mare non la smetteva di parlare, perché il silenzio, a volte, era doloroso e rimanevano solo echi di discorsi nella mente che anche le maree finivano per dimenticare.


Gli ostaggi psichici rinchiusi nella casa sulla spiaggia, le gabbie dei pensieri e dei ricordi e il tempo che colava come vernice viola dalle pareti, gli occhi dei gatti, le fessure nere e le sostanze che qualcuno ogni tanto mi spediva, arrivavano in anonimi pacchi marroni, di solito il martedì mattina, se proprio vogliamo ancora dare un nome ai giorni, suggeriva lo scrittore. 
Il mare oltre le finestre, sempre diverso, capace di trasformarsi e stupire con le sue maschere di acqua e aria, i travestimenti dai colori improvvisi e una lampada a forma di pietra, la luce arancione che pulsava al suo interno come un cuore di fuoco, ardente e bramoso, perché c’erano ancora desideri sparsi sui pavimenti o sotto le lenzuola, qualcosa che i cassetti della scrivania ambivano e tenevano nascosto, la puntura di un ago e un sogno di vetro sferico appoggiato su un tavolino e le immagini al suo interno quando la nebbia dei misteri si dissolveva e appariva un volto, stanco, vecchio, pieno di rughe e una flebile voce che ricordava quella delle le crepe che la notte osservavo sul soffitto e c’era un altro uomo, intrappolato nella sua stanza, al piano di sopra, scendeva raramente, solo per mangiare o prepararsi una tazza di tè, giocavamo a scacchi, ogni tanto, partite interminabili sulla scacchiera della demenza, movimenti cerebrali in linee orizzontali e diagonali, pensieri verticali che cercavano di non rimanere schiacciati nei quadrati bianchi e neri e così reinventavamo una geometria impossibile per le nostre architetture oniriche, i suoi incubi che mi raccontava seduto su una poltrona nera, accarezzando un gatto bianco, la voce bassa e rallentata dalle medicine, io che mettevo un altro acido sotto la lingua e attendevo, onde sinuose che attraversavano lo spazio chiuso di una camera, le chiome degli alberi che parlavano in un bosco al tramonto, i loro discorsi di armonie dimenticate, le forme che si stagliavano nel cielo, sempre più grandi, in volo su veicoli del futuro, prospettive della terra, in profondità lontane, serpenti d’argento che vi scorrevano indomiti, guardo attraverso un prisma di vetro, sezioni incandescenti della realtà, parti di una visione che diventa nitida solo oltre la vista, stringimi ancora prima di andartene, il tuo respiro è così vicino ora, che ne posso sentire il calore mentre svanisce delle tue labbra socchiuse. 

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