venerdì 17 febbraio 2017

Bryn Rhyg #3



Nick sedeva sul divano, nei suoi vestiti che iniziavano a puzzare, non che fosse importante, non qui, la barba lunga, ingiallita sopra le labbra, una sigaretta perennemente incollata, tanto che lo scrittore si era chiesto se almeno durante la notte ci fossero delle pause dal fumare, errori del sonno, perché dormire? Aveva chiesto Nick, perché perdere altro tempo, c’era da occupare ogni secondo, ogni attimo a disposizione – le partite erano lente e i pezzi sulla scacchiera si muovevano seguendo logiche create da menti in fuga verso l’ultimo bordo di una superficie ludica, si apriva il vuoto della pura immaginazione oltre quel limite, potevamo restare interminabili ore a guardarlo, rollando sigarette di hashish, il fumo che saliva in spirali inventate dagli occhi lungo coni di luce, gli sguardi nel fuoco, quelli sui muri e nelle cortecce - Nick passeggiava sotto le stelle, l’aria fredda, aveva solo un paio di teli addosso e un mozzicone spento tra le labbra e ripeteva sottovoce di non sentire niente, un mantra per scomparire ed evaporare davanti alla danza delle fiamme, una volta rientrato dentro, accucciato su un materasso buttato per terra, polvere ovunque e le tracce di sabbia, ricordi di un omicidio incompiuto, le macchie di sangue secco, i grumi di porpora sulla parete, un ombrello cinese aperto e usato come un paralume - una donna aveva abbracciato lo scrittore quando era sceso dalla sua stanza, una sensazione calda, avvolgente, aveva sentito il contatto dei seni contro il suo petto, sotto la stoffa dei  vestiti, aveva anche visto la bustina mezza piena di emmedi sul tavolo, non aveva fatto domande, si era lasciato andare, i ricordi dei corpi svanivano, ombre che scivolavano via, il sole che apriva ferite nelle nuvole che si appiattivano lungo l’orizzonte roseo, astrazioni di colori e forme aeree e tagli e scie di luce per rapidi cambiamenti, connessioni psichiche ad alta quota, lo sguardo di intesa con una hostess, il suo sorriso lieve, il bicchiere di gin and tonic che risuona ghiacciato su  un vassoio, una piccola pillola bianca appare nella mano dello scrittore e poi scompare nella bocca, giù lungo la gola trasportata dall’alcol, gli occhi chiusi nel momento del decollo – atterraggio in piena notte, il tappeto magico delle sostanze che si poggia piano sul pavimento, morbido e caldo, ci sono delle voci che si cercano nell’oscurità, litigi nel buio, le immagini dello scrittore e di Ken, nelle mattine grigie in cui si incontravano, erano l’uno il riflesso dell’altro, senza sapere chi fosse il doppio e chi l’originale, sempre che ci fosse bisogno di una differenza di questo tipo, i vestiti erano ormai uguali, logori e sporchi e le loro facce si guardavano incuriosite come se si incontrassero per la prima volta, poi ognuno continuava con la sua rappresentazione dell’esistenza, un personale teatro dell’assurdo, recitato e messo in scena a qualsiasi ora, le assi di legno del palco, quelle scricchiolanti delle scale, i monologhi e le improvvisazioni alcoliche, un sorriso, i colori dell’autunno stavano arrivando e lo scrittore guardava le foglie giallastre staccarsi e volare, la confezione di codeina in mano, la poesia di una donna sconosciuta attaccata sulla parete del cesso, la bellezza delle prime luci dell’alba, quando nessuno era in giro per guardarla, Nick metteva di nuovo i pezzi sulla scacchiera, in attesa che qualcuno facesse la prima mossa.

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