lunedì 10 luglio 2017

Birmingham #2


Lei parlava al telefono mentre ero sdraiato sul letto, guardando fuori dalle finestre della stanza di un albergo, il cielo era grigio e io mi stavo abituando, settimana dopo settimana, a questo colore, lo trovavo stranamente familiare e capace di dare spazio alle architetture della mia mente. Creavo strutture geometriche da riempire con parole e note, le fotografie in bianco e nero catturavano le forme metropolitane, le modificavano nelle improvvise intuizioni dei miei occhi, assemblavo linee e angoli, mi immergevo nelle profondità delle ombre, lasciavo che la luce rimodellasse in visioni apocalittiche le menzogne del futuro degli edifici. I libri di design sistemati su un tavolo di plastica bianco, gli appunti, i quaderni nella borsa. Il flusso delle macchine, in basso, tra le strade di una ennesima città onirica, lei continuava a parlare e si accendeva una sigaretta, chiudevo gli occhi e lasciavo le immagini mentali libere di scorrere, ricordi, apparizioni fugaci di volti dimenticati, ancora gli effetti dell’ultima pasticca, una sensazione di leggerezza, i pensieri come basse nubi su paesaggi in continuo mutamento, nessun significato, nessuna logica, solo libere associazioni. La telefonata era finita e lei si era stesa accanto a me, mi accarezzava il petto, giocando con i miei capezzoli, il cazzo iniziò a diventarmi duro e le sue labbra scivolarono sul mio petto, poi sull’addome, fino a prendere la cappella nella bocca, le piaceva succhiarla, la mattina o quando ne aveva voglia. Chiusi gli occhi, sembrava di essere trascinati in un mondo umido e sfuggente, ci si muoveva senza attrito, senza peso, una serie di rumori marini e la spuma delle onde in ciclici e dolci vortici. Seduti in una macchina, gli occhiali scuri, fuori dai finestrini scivolavano i corpi delle persone, mutazioni nello sguardo e codici genetici riscritti in laboratori clandestini, gli uomini in camice bianco, le sostanze che venivano preparate, le combinazioni chimiche, emozioni sintetiche, alterazioni sensoriali sul punto di esplodere, modificazioni fluide della realtà, serie ininterrotte di edifici industriali mentre le figure umane diminuivano, ampi parcheggi, fabbriche abbandonate, le reti metalliche, gli spacciatori agli angoli delle strade, le prime gocce di pioggia. La macchina che si ferma, la porta rossa, anonima e piena di scritte, un abbraccio oltre l’entrata, un sorriso, camminiamo verso la sala per il mixaggio, Khan è davanti al computer, lavorando alle ultime tracce, le tazze di tè, mi siedo su un divano e parlo con Mike, una nuova pasticca sotto la lingua, gli mostro alcune delle mie ultime fotografie, tutto è rallentato, confortevole e in penombra, i primi effetti, lei che discute con Khan, gli strumenti musicali appoggiati per terra, sui muri, ovunque, i tappeti e i cuscini, le apparecchiature elettroniche, i vetri divisori, la musica finalmente arriva, inonda e colma la stanza, ci fermiamo tutti quanti ad osservarla, variazioni ritmiche come pulsazioni luminose, lei mi prende per mano, i battiti digitali che si espandono, calde sensazioni di piacere, guardo una pianta in un vaso, le foglie cominciano a brillare, sempre più luminose, c’era un dio ovunque, un paradiso e un inferno, l’estasi di un solo attimo di pura consapevolezza, l’assoluta gioia di sapere che nulla era vero, di essere vivi senza che nessuno ce ne avesse chiesto il motivo.

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