lunedì 14 agosto 2017

Birmingham #3


Le telefonate da Birmingham, i produttori della BlackBombay che tentavano di contattarmi, il mio cellulare spento, muto, ucciso in un angolo del tavolino di legno nero, le ultime immagini che cercavo di cancellare dalla mente, le inquadrature psichiche che i sogni riproponevano in scenari impossibili, lavori lasciati senza una fine, tagli su sequenze che avevo smesso di immaginare, loro mi volevano ancora, contratti che nessuno aveva firmato, le lunghe limousine che attraversavano luci metropolitane e spazi di ombra e buio, gli occhiali da sole a proteggere sguardi tossici, le ragazze con le gonne corte, l’odore delle loro fiche era ovunque, ti risvegliavi in letti sconosciuti, le strisce già pronte sulle superfici lucide, la pioggia che rigava la città, i graffi sulla pelle, i lividi come ricordi d’amore, gli occhi pesti e la memoria che riscriveva le sue sceneggiature, personaggi in volti deformati dalle droghe, dialoghi notturni che l’alba faceva svanire dalle pagine e dalle bocche, le assi colorate di un appartamento, viola e rosse, il corpo nudo di una ragazza seduta su uno sgabello, i dischi poggiati per terra, gli enormi amplificatori, gli strumenti elettrici, alcune fotografie attaccate ad una parete, c’era sempre la sensazione di essere da un’altra parte, i pensieri che oscillavano sui limiti di percezioni alterate, gli sguardi in macchina e le labbra intorno ad un enorme cazzo, c’era da chiedersi chi avesse creato quell’estetica, come si fosse arrivati a quella maniacale ossessione per i dettagli, ci avevano pensato il denaro, i guadagni e l’illusione della ricchezza, c’erano uomini che avevano indossato maschere per rendere più reali le loro menzogne, c’era anche il silenzio, in alcuni momenti, quando potevi per un attimo guardare oltre gli obiettivi e le lenti, le luci e i riflettori, gli occhi persi nel nulla e la quiete e il vuoto in quell’assenza di rumore e prospettive, poi tutto tornava a girare, a complicarsi, te ne andavi per le strade ancora avvolte dalla notte, una sigaretta incollata al labbro, c’erano puttane che ti salutavano, spacciatori da cui non volevi più farti vedere, amici che il tempo aveva trasformato in manichini di un teatro abbandonato, le sale vuote, le poltrone piene di polvere, su quel palco avevi recitato molti ruoli, poco più di elementari improvvisazioni, ti stancavi presto delle parti e ripeterle settimana dopo settimana era stupido quanto inutile, eppure ti avevano pagato e avevi accettato quei soldi e ti eri dimenticato cosa fosse quel respiro che nascondevi nel petto, parole e frasi e gesti eclatanti per sconfiggere la paura, intere nottate davanti ad uno schermo, a modellare, rifinire, rendere fluide tutte quelle sequenze, la musica nelle orecchie, melodie scritte per portarti altrove, scosti le tende, guardi oltre il vetro, le luci rosse e intermittenti sulle cime dei grattacieli, il mare, oltre il cemento e il metallo, una mano che ti accarezza la schiena, dove sei stato in tutti questi anni? Non posso dirtelo, ho solo aperto una porta, poi ne ho chiusa un’altra e non sapevo che  fra di esse ci fosse questa infinita confusione senza ritorno.

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