lunedì 24 dicembre 2018

Aberystwyth #9

Pioveva. E novembre stava per finire. E c’erano libri ovunque nella casa dove abitavo, insieme ai fantasmi di giovani tossici, le carte da parati che qualche sostanza psichedelica avrebbe reso vive come nella danza dei mille scarafaggi volanti, il gruppo di meditazione buddhista in cui rimanevo in silenzio a respirare e poi al suono d’argento della piccola campana aprivo gli occhi e ascoltavo gli altri con muto stupore, non avevo molto da dire, forse non ne avevo mai avuto, la sauna in cui i corpi si incontravano ed espellevano fluidi e tossine, le ragazze ubriache che camminavano lungo le strade il sabato sera, passavo i pomeriggi disteso sul letto, a leggere o semplicemente a immergermi nel mondo interiore, diventavo settimana dopo settimana sempre più bravo, la piccola stanza come quella della mia adolescenza, sembrava che la vita mi stesse riproponendo gli stessi scenari, le stesse ambientazioni, ma non avevo fretta o paura, c’era solo una pacata resa, una delicata  contemplazione, mi limitavo ad accettare le cose che mi capitavano ogni giorno, mi lasciavo attraversare da esse, come se fossero aria e mi rendevo conto che in questo modo ogni problema si dissolveva, non c’erano più incazzature, aspettative, delusioni, attimi di sofferenza, incomprensioni, la vita si modellava in forme che non possedevo e che non mi toccavano eppure in questo lieve distacco c’era sempre la sensazione di trovarmi nel centro stesso della mia esistenza, di essere reale e concreto, di capire quello che ero senza fraintendimenti, la ricerca interiore proseguiva da sola, mi trascinava con sé, mi faceva chiudere gli occhi e osservare me stesso, le mie emozioni, come erano nate, i perché dei miei errori, la confusione di quasi quaranta anni di risvegli su questa terra si stava diradando, mi sembrava la maniera migliore di occupare il mio tempo, cercare di sentire finalmente la mia essenza, non era un tipo di comprensione intellettuale o psicologica era una consapevolezza più ampia e vasta che sapevo bene non appartenermi anche se era dentro di me, passare attraverso di essa significava ritrovarsi all’esterno e capire di fare parte di qualcosa di identico ma infinito, presente in ogni respiro, come le onde nel mare, un attimo dopo l’altro e avevo i sogni e quello che ogni notte mi mostravano, la possibilità  di confrontarmi di nuovo con tutto ciò che mi aveva ferito, mi concentravo su quelle sensazioni sgradevoli e le curavo respirando fino a quando il cuore fosse calmo e pieno di pace e in questo modo comprendevo che ogni reazione sbagliata non era stata altro che un malinteso dei miei sentimenti soltanto perché li avevo creduti reali nel momento stesso in cui mi attaccavo ad essi senza lasciarli andare, non c’era mai stato nulla che avesse avuto veramente importanza perché ogni stato d’animo non era altro che un illusorio aggrapparsi al proprio ego, al quale poi si finiva per dare il nostro volto e la nostra vita, un biglietto da visita da mostrare in una società piena di stronzi, alla quale molti di noi decidevano di credere e fare parte.
Osservavo le mie mani in un’alba di grazia nascosta fra i grigi veli del cielo d’inverno e mi sembravano molto vecchie ma c’era anche una primavera costante che sentivo vibrare proprio nel centro del petto, c’erano i suoi colori che potevo toccare sfiorando la mia pelle, abbiamo invocato l’amore come fosse una divinità impossibile da trovare, guarda i giorni che ti hanno solcato il volto, la morte che   misteriosa ti attende, guarda te stesso sprofondare negli anni, tra i fiori che  hai visto sbocciare e appassire, fra tutti gli occhi che ti hanno sorriso per poi infine svanire.

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