martedì 19 aprile 2022

Roma #13 (via tiburtina)

Via Tiburtina, direzione Tivoli. Ci arrivo dopo aver attraversato San Basilio (spaccio, droghe, ricordi di un giorno in cui stavano facendo enormi murales sulle facciate di alcuni palazzi), fermandomi poi ad un semaforo e trovandomi davanti alla mastodontica carcassa in cemento di una fabbrica farmaceutica abbandonata, nella quale avevamo girato alcune scene di un film quando eravamo attori e registi e mettevamo in discussione la realtà attraverso l’uso di sostanze allucinogene sperimentali, nuove sintesi di millenarie preparazioni sciamaniche e l’evoluzione, certo, il progresso dovevano andare avanti, fosse anche per quel sublime e momentaneo ritorno all’estasi danzante del caos originario.

Via Tiburtina, direzione Tivoli. File di capannoni industriali e spazi vuoti e palazzine a due piani, sale per le slot machine, tavole calde, supermercati aperti tutta la notte, dove sono le puttane? Chiedeva uno dei produttori che mi ero portato dietro mentre si accendeva il sigaro e dava una sorsata dalla fiaschetta d’argento che aveva in mano (cosa beveva? Sangue umano?), era ancora presto, io avevo preso una mezza pasticca di ecstasy per colazione, poco prima di mettermi al volante (audace farabutto) e dunque che cosa importava?

Le giornate alla festa del cinema di Roma erano state abbastanza mediocri con frotte di studenti intorno, attempati giornalisti che borbottavano e si addormentavano in sala, vecchie battone imbellettate su tacchi spuntati e giovani puttanelle che si mettevano in mostra in cerca di qualche fesso arrapato che le facesse entrare nel giro (quale? Quello delle troie dello spettacolo) e a volte guardavo questa gente negli occhi fino al punto che non abbassassero lo sguardo o che, per lo schifo, non lo facessi io. 

Poi le proiezioni, alle quali andavo sobrio, avevo stranamente deciso di non bere, il tappeto rosso e qualche povero stronzo che ogni mattina doveva pulirlo (con la lingua, suggeriva un sadico organizzatore con la faccia da sorcio) in attesa che le celebrità del giorno e poi quelle della notte arrivassero. I tipi (i topi?) della security mi guardavano storto quando mi mettevo a ridere da solo nel mezzo dei corridoi dell’Auditorium pensando che fossi pazzo. E invece c’avevo una tristezza dentro e mi chiedevo chi cazzo me l’avesse fatto fare a rimettermi dentro una situazione del genere, manco per i soldi lo facevo, giusto per provare quel vecchio disgusto (mancava la paura suggeriva il Dottor Gonzo), quel vecchio disagio (masochista del cazzo che non sei altro). Non avevo parlato con nessuno per tutta la durata della festa (dimmerda) e il produttore che mi ero portato dietro fino a Tivoli per mostrargli mignotte invisibili non era altro che un doppio mentale, un’invenzione dello scrittore, un’aberrazione ottica, una semplice compagnia narrativa.

Qualcuno in sala, durante un’incontro con Quentin Tarantino gli aveva chiesto con quale personaggio dei suoi film gli sarebbe piaciuto uscire insieme (io gli avrei voluto chiedere la top five dei piedi delle attrici con le quali aveva lavorato), lui si era messo a ridere, poi aveva risposto Cliff Booth. Alle conferenze stampa speravo sempre ci fossero attrici con i tacchi alti così avrei potuto sbizzarrirmi a fotografare le loro estremità, avevo un anello di metallo sul cazzo e la mattina prima di mettermi in macchina mi facevo un giro per i cassonetti, vicino a dovere vivevo, in cerca di scarpe da donna lasciate in qualche busta aperta (benedetti siano gli zingari), quelle che mi eccitavano le prendevo per poi masturbarmici sopra e sborrarci dentro quando ne avevo voglia.

Scrivevo anche articoli e recensioni che probabilmente nessuno avrebbe letto e mi dilettavo nelle mie personali fughe mentali cinematografiche, bevevo un paio di bicchieri di vino alla sera, in terrazza, ancora si stava bene fuori, avevo piantato alcuni semi di marijuana, mi piaceva vedere crescere quella pianta, era meravigliosa.

Avrei anche dovuto cercarmi un lavoro ma non ne avevo voglia, non volevo tornare dentro a una gabbia, una fogna, un ufficio, non avevo voglia di avere persone intorno, di dover parlare con loro, di vederle tutti i giorni, sempre le stesse facce, che incubo era stato, mi piaceva girare a caso con la mia macchina, a volte ripercorrendo le strade del passato, in cerca di ricordi o per vedere se qualcosa era cambiato, quella che portava a Guidonia ancora mi dava il voltastomaco al solo pensiero di tuto il tempo che avevo perso in un hotel di quelle parti nel tentativo di insegnare italiano ai quei pochi stranieri interessati, fra l’indifferenza generale, mi toccava fare lezione nella sala mensa, ancora posso sentire nelle narici l’odore nauseabondo del cibo che portavano lì e che i poveracci ospitati nell’albergo si dovevano mangiare tutti i giorni, che merda, poi mi sono fatto una passeggiata per la parte vecchia di Tivoli, dopo aver parcheggiato vicino al castello, non c’era quasi nessuno in giro, la luce era quella buona per scattare foto, mi sentivo tranquillo, sono entrato in un bar, ho preso un cappuccino, un cornetto, mi sono seduto ad un tavolino, davanti ad una grande vetrata e mi sono messo a scrivere. I sogni della notte svanivano, la loro inquietudine anche, me ne sarei andato in un bosco dopo colazione, potevo fare quello che volevo, non c’erano più rompicoglioni intorno, l’autunno stava arrivando insieme alla sua dolce e malinconica e dorata magia., la vita era adesso e poi non lo sarebbe più stata.

Nessun commento:

Posta un commento

freewheelin' #82

  Le notti diventavano più brevi e il sonno si popolava di sogni e fra le loro storie c’eri anche tu, il tuo volto e il tuo corpo ma non i t...