venerdì 1 aprile 2022

Roma #10

 Le cose continuavano a funzionare a cazzo a Roma e non è che me ne meravigliassi più di tanto, bisognava solo assecondare gli idioti che avevo intorno e proseguire a vagare nel proprio tempo e nel proprio animo, potevo indossare maschere e lo avrei fatto e mi sarei relazionato con le altre persone in questa maniera, da dietro un volto che era il mio anche se non mi apparteneva - C’erano i soliti miserabili agli angoli delle strade, alcuni piccoli bengalesi dormivano ubriachi su strati di sporcizia e alcuni nigeriani erano ancora con la mano allungata fuori dai supermercati e mi irritavano terribilmente perché conoscevo bene i retroscena di quest’altra interpretazione e quel braccio che usavano per tenere un cappello per chiedere l’elemosina lo avrebbero anche potuto usare in attività più utili per loro stessi e gli altri - Non che io utilizzassi i miei arti superiori con chissà quali finalità sociali, pedagogiche e lavorative, al momento mi piaceva masturbarmi e scrivere e bere e scattare fotografie (e mi era sempre piaciuto) - Ero tornato a vivere con mia madre, per un breve periodo, mi dicevo e mi sentivo al sicuro nella camera che per anni e anni era stata il mio rifugio, adesso mia sorella l’aveva cambiata, unendola alla sua, avevano fatti dei lavori e del mio spazio non era rimasto più un cazzo. Comunque mi ci trovavo bene, con i mei pochi vestiti in un cassetto e il computer e il letto e alcune maschere e la chitarra elettrica e l’amplificatore. Mi piacevano i gatti che c’erano in casa, così pacati e tranquilli. E le pareti del palazzo, quelle interne del cortile, con il loro giallo ocra che nei giorni di sole mi proiettava nelle visioni di un De Chirico sotto acido. 

Avevo rivisto la Grande Bellezza di Sorrentino e il personaggio di Jep Gambardella mi faceva girare una frase nel cervello per descriverlo, come fosse un mantra romanesco, un pò flaneur, un pò fijo de ‘na mignotta - Ero andato alla usl per farmi ridare la tessera sanitaria, la mia l’avevo perduta quasi sei anni fa in un distributore automatico di sigarette a San Lorenzo e poi me ne ero dimenticato. Mi serviva adesso per il vaccino, che avevo una mezza intenzione di farmi, fosse solo per non pagare i test di cui si aveva bisogno per prendere un’aereo o un treno (in caso fossi fuggito di nuovo) e anche perché nei musei e nei cinema non si poteva entrare senza il green pass e credo pure sui nei ristoranti, la capacità umana di creare sempre nuove stronzate per incasinarsi l’esistenza era strabiliante. 

Era più nitida ora la consapevolezza di quanto fosse stato tossico e nocivo l’ambiente nel quale avevo lavorato come insegnante di italiano e di quanto la montagna di vaccate che ero stato costretto ad ascoltare in quegli anni mi avesse quasi ucciso. Vedevo persone sedute dentro gli uffici,  dalle finestre che tenevano aperte, con la mascherina sul volto, davanti a un computer a fare non so bene cosa, mi sembrava orribile, c’erano prigioni ovunque e tanti di noi non aspettavano altro che entrarci per poi ringraziare i propri secondini e tormentatori.

Ero passato anche per la stazione Tuscolana, era lurida come non mai, però possedeva ancora un’anima e una memoria che sentivo appartenermi. Mio nonno mi portava spesso lì, a guardare i treni, serbavo dentro di me quelle sensazioni e anche la luce che vedevo fra le rotaie mi sembrava simile a quella della mia infanzia. In questo stato d’animo scattavo fotografie, poi proseguivo, poi rimanevo fermo. In alcuni momenti parlavo da solo e chissà quanto ci avrebbero messo gli altri a iniziare di nuovo a rompermi i coglioni. Adesso non me ne preoccupavo, le stanze segrete c’erano ancora e anche gli sguardi e le mani gentili di dolci ragazze asiatiche, era sufficiente una comunicazione basica ed essenziale con loro o solo rimanere in silenzio ad occhi chiusi su un lettino, in uno stato di passività totale. Avevo libri di Houellebecq e Burroughs sul tavolino della mia stanza, bevevo insieme a mia madre a pranzo, chiacchieravamo un pò, poi ognuno si ritirava nel suo spazio personale. Mi alzavo presto la mattina, mi seduceva l’alba con la sua tranquillità, il giorno non prometteva nulla e io non avevo assolutamente niente da chiedergli. L’eterno ritorno è questo invisibile presente fatto di attimi e respiri e ombre sedute in attesa di un nostro ultimo e splendente addio.


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