sabato 14 febbraio 2015

homesick #18

Te la offrivano pure un’opportunità, perché qualcuno parlava con un’altra persona e allora alcune porte, per coincidenza o fortuna, si aprivano e ci entravi dentro a questa nuova vita, per vedere come era, perché quella vecchia era andata distrutta o non ti stava più bene e pensavi che un cambiamento sarebbe stato certamente migliore dell’apatia che ti stagnava dentro l’anima e non dimenticarti il dolore, che saliva e scendeva, oscura marea, a volte fino ad affogarti e gli ultimi respiri che rantolavano fuori insieme alle lacrime, le preghiere recitate in silenzio ai bordi di un letto, ci fosse stata una punizione sarebbe già stato qualcosa di reale e invece era solo la litania mentale di una stupida agonia. Una corona di spine in testa ti sembrava un premio irraggiungibile.


E ci mettevano poco le cose a cambiare, come ci avrebbero messo poco a ritornare le stesse di prima. Ti abituavi ai loro orari, agli schemi di comportamento, alle procedure d’ufficio. Giorno dopo giorno. Era un allenamento alla normalità, a quel tipo di vita che avevano costruito su misura per la nostra infelicità. C’avevo una gran curiosità di vederla, questa vita adulta, con i suoi meccanismi e le sue tappe obbligate. Il fidanzamento, il matrimonio, il lavoro, la casa, i figli. I più stupidi seguivano pure un ordine nell’ottenere tutte queste merdate, altri si affidavano al caso ma sempre inculati sarebbero rimasti. Io ci andavo cauto, a piccoli passi, me le scoprivo un po’ per volta tutte le meschinità delle persone e le bugie che si raccontavano per portarla avanti ‘sta farsa e li avevo visti gli amici e le amiche che ci si rinchiudevano per bene dentro al teatrino dell’esistenza, con i vestiti buoni e i nuovi tagli di capelli e un po’ alla volta me li sono tolti dai coglioni, che intanto di quelle vite, di quei rapporti non sapevo più che cazzo farmene. Pure a un paio di matrimoni mi era toccato andare, pure come testimone ci ero stato, con il vestito comprato per l’occasione e mai più messo, me ne sono stato in silenzio durante la celebrazione, gli altri che pregavano e cantavano. Entrambi i giorni li ho finiti ubriaco fradicio. 


E già sono cinque anni che ci sto dentro a ‘sta vita, l’ho studiata bene, l’ho visto lo scorrere dei giorni dal fondo della stanza senza finestre, ci si abitua a tutto, è incredibile, se non si mette un limite alle porcherie ci si abitua a tutto, alle condizioni scadenti, alla banalità dei rapporti, ai sorrisi e alle risate finte, alle dinamiche di gruppo, ai pranzi, ai caffè e alle colazioni e gli altri che continuano a parlare e a te, dopo un po’, non è che te ne freghi un granché delle cose che dicono, anzi, le smetti proprio di sentire tutte ‘ste cagate. Poi ci sono queste donne con le sigarette in bocca, insoddisfatte, che ti raccontano le loro giornate libere o come passano il tempo lontane dal lavoro, non è che sia un gran bello spettacolo la vita degli altri, soprattutto se te ne parlano senza un po’ di fantasia, se te la buttano là, come cenere di un mozzicone che cade per terra, non c’ha interesse il vento a portarsela via figuriamoci qualcuno a raccoglierla.


C’ero rimasto troppo tempo a casa di mia madre e ci avevo messo troppo tempo ad andarmene, ma avevo dovuto curare i tagli sul cuore e avere pure i soldi per trovare un posto in cui non ci fossero troppe rotture di coglioni e con questi ragazzi che m’ero ritrovato tra le mura domestiche le cose andavano pure bene, erano più piccoli di me e quindi pensavano alle droghe e alla fica ed erano divertenti e un po’ lerci, che se ogni tanto non mi ricordavo io di pulire i pavimenti e il cesso non so a quale grado di zozzeria si poteva giungere. E così c’avevo una stanza condivisa e un lavoro e non vedevo l’ora di liberarmi da tutto questo e tornare a vagabondare, stare un’intera giornata senza fare nulla o mettermi di nuovo a cercare, qualcosa di diverso, luoghi sconosciuti, un futuro da inventare, che quando non ti bastava il presente, perché lo riempivi di stupide paure, c’era sempre il futuro a cui pensare, con l’ingenua speranza che sarebbe stato qualcosa di migliore, ma non era quello che volevo, volevo riprendermi l’oggi e dimenticare il domani, prendere il presente e aggiungerci un altro po’ di tempo e fare questo presente il più lungo possibile e viverci dentro e starci tranquillo, ecco, un posto dove stare tranquillo, in silenzio, in solitudine, lontano dagli altri, era proprio quello che mi serviva. L’opportunità per entrare te la offrivano pure, poi bisognava capire il modo per uscirne fuori, una volta per tutte.


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