La
luce cancellava le tracce della notte, i suoi segreti, i suoi travestimenti. Le
facciate del palazzo sembravano vecchie e abbandonate, adesso che il giorno ne
svelava anni e difetti, un luogo deserto, dimenticato, una spazio di mattoni e
stanze e corridoi – ero entrato, di notte, accompagnato, la maschera piumata
sul volto, un bastone a cui appoggiarmi, le parole in codice, le luci
rossastre, che colavano dal muro, i primi invitati, i trucchi, le sembianze
animali, gli schiocchi della frusta, la croce di sant’andrea, nera. Camminai e
osservai, senza dire una parola, muovendomi lentamente, qualcuno mi passava
accanto, a quattro zampe, un guinzaglio al collo, una catena che lo tirava, una
mano in un guanto di pelle che impugnava quella catena, il rumore dei tacchi e
la distanza, la maggiore possibile, dagli altri corpi, dal loro contatto,
scivolavo come un’ombra solida, presente e intangibile, le corde iniziavano a
lasciarle ricordi sul corpo, appesa al soffitto, mi avvicinai per guardare
meglio i segni sui polsi e le caviglie, aveva gli occhi chiusi, sembrava
felice. Profili di conigli sanguinanti, banchi di scuola, disegno un enorme
fallo sulla parete di una stanza, la cera cadeva a gocce sulle travi di legno,
le figure incappucciate si strusciavano, la mia mano sul suo ventre fasciato di
latex, nel centro della stanza, aspetto che il rumore diminuisca, poi colpisco
con la punta del bastone il pavimento, silenzio - ordino con voce fredda e
calma.
lunedì 2 novembre 2015
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