giovedì 19 novembre 2015

homesick #25

La notte ci si affollava dentro ai locali, si girava per le strade, a volte con sguardi famelici, attratti dal luccichio e dagli echi della musica, come se ci fossero tesori nascosti dietro a quelle note, il circo lo tiravano su ogni venerdì e sabato sera, te lo ritrovavi intorno, con i botti e i fuochi d’artificio, che ti esplodevano in testa, con l’alcol e i culi strizzati delle ragazze, ci giravi intorno, nell’attesa di uno sguardo, un cenno, qualcosa che ti facesse avvicinare, magari scambiavi due parole e te ne andavi a fare un giro sulla ruota panoramica, a vedere le tristi luci della città dall’alto, una mano in mezzo alle sue cosce, l’odore della fica sulle dita, un altro giro signori, si scende e si sale, i padroni ti lasciavano in pace per quarantotto ore, poi le gabbie si aprivano di nuovo e ti toccava rientrarci, a spinte e insulti, le mattine, quando l’alba ti prendeva a schiaffi, ti dava un calcio in culo e ti sbatteva sull’asfalto, nel mezzo di altri occhi rossi e bocche sformate, a strattoni e botte, lungo le scale, dentro la metro, sopra gli autobus, ci sta pure chi già c’ha voglia di parlare e ti tortura le orecchie in chiacchiere al telefono senza capo e né coda, giusto per buttarla fuori, questa aria che si tengono dentro i polmoni, c’è pure chi ti parla dei figli appena nati o della madre malata, dell’amore che è scappato, dei chili in più, di quanto sia stronza questa vita perché troppo subdola o complicata, una vita senza prospettive, come se ci dovessimo preoccupare abbastanza a lungo, come se tutto non fosse destinato, un giorno, a finire. 

Le pozzanghere per strada ti davano la visione di un mondo capovolto - stare con gli occhi chiusi, sul letto, facendo finta di dormire, non osservando nulla oltre il proprio lento e continuo respiro, momenti in cui mi sentivo protetto, momenti in cui nessuno veniva a dirmi che non mi capiva, che ero maleducato, che non sapevo comportarmi in pubblico, ci si metteva poco a perdersi nei giorni, nelle abitudini, ci si poteva mettere veramente poco per imbastardirsi, che solo i tuoi affari contavano e avevano importanza, vacci al lavoro, giorno dopo giorno, stacci a contatto con le persone, a me vengono a noia quasi subito, sempre lo stesso circo, le stesse giostre, in molti ci si trovavano pure bene, se ne dimenticavano di come erano prima, che a volte i sorrisi erano pure disinteressati, che mica ogni volta che alzavi le labbra li dovevi far vedere i denti, manco fossi un lupo o uno squalo, ci si fregava in ogni luogo e in ogni momento, perché era quello il modo di vivere e il divertimento ci poteva anche essere, la sera, quando ti contavi i soldi guadagnati, grattandoti i coglioni, che le mutande ti prudevano per il sudore spillato.


Questi piccoli bengalesi davanti ai locali, con le loro rose senz’anima, che neanche sanno mettere in fila due parole della tua lingua, una processione di derelitti, di bambini che hanno smesso di crescere, in fila, intimiditi, al freddo, senza speranza, senza nessuna speranza, ti si attaccavano addosso con quelle rose e passava via la pietà, che non ce la facevi più a vederli, perché ti ricordavano, con ogni rosa e ogni ombrello che ti mettevano sotto il naso, quanto fosse misero l’essere umano e sottomesso e incapace di alzare la testa e dire basta, era piena di gente così la strada, te la vedevi intorno, che strisciava e scivolava, occhi bassi e spenti, mi piaceva starmene con una ragazza, quando capitava, a casa, ad eccitarmi e farmelo salire su duro, m’era sempre piaciuto, nulla durava più di un respiro ed era questa la solenne meraviglia del nostro vivere e del nostro morire.


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