lunedì 3 ottobre 2016

Black Mountains

Avevo riparato il tetto della casa di pietra, durante la mattina e sistemato la legna vicino alla stufa, poi mi ero seduto su una poltrona di pelle logora, mezza sfondata, il regalo di un amico, di tanto tempo fa. C’era della polvere che non avevo più tolto, dalle finestre e da tutto quello che avevo intorno. Avevo amato fin da subito questo luogo, le colline e la loro luce meravigliosa, erano anni che vivevo tra i boschi eppure il tramonto che ogni sera vedevo continuava ad emozionarmi, quella vista, quella pace, il modo in cui i colori diventavano così tenui, dolci, umani e divini.
Mi ero preparato una tazza di tè sulla vecchia stufa, dopo aver acceso un fuoco all’interno, ero nella grande stanza centrale, con i suoi muri di pietra e i suoi fantasmi, mi venivano a trovare, ogni tanto, quando li vedevo nel movimento di una tenda nell’aria o nei riflessi di un vetro. Facevo lunghe passeggiate e raccoglievo dei funghi, avevo imparato a riconoscere quelli magici, li mangiavo e continuavo a camminare, le prospettive che cambiavano in scenari gloriosi e splendenti, tonalità e sfumature che vibravano come onde nell’aria e i pensieri che esplodevano come scintille su ogni filo d’erba. Non c’era più nessuno a cui dovessi raccontare la mia vita, perché non c’era più nulla da narrare, anche il libro nero si era ricoperto di polvere, riposto in un cassetto dimenticato. Bevevo vino, gin, una volta alla settimana scendevo al paese con la mia macchina scassata e compravo le provviste per quella successiva, scambiavo qualche parola, qualche sorriso con la gente del luogo, poi ritornavo alla mia solitudine.
L’autunno aumentava l’odore dei ricordi, il legno bruciato e la cenere, tutto quello che avevo voluto le fiamme distruggessero, le fotografie sbiadite, quelle strappate, solo nei sogni quegli incontri avevano ancora un senso, continuavamo a essere giovani, io, i miei amici e le mie amanti, chi avevo perduto, ancora intrappolato nei giorni, la mattina accendevo di nuovo il fuoco nella stufa e preparavo il caffè, lo bevevo lentamente, su una sedia di legno, con cuscini orientali ormai deformi, mi accarezzavo la barba, un gesto che non avevo mai saputo abbandonare, c’erano così tante cose da fare perché nessuna di esse aveva più importanza, non c’erano tanti pensieri, perché le azioni riempivano gli spazi mentali, poi fuggivo ancora, per il rischio della scoperta, oltre gli alberi e le rocce e le montagne, oltre gli sguardi di chi non avevo più incontrato, lontano, in paesaggi remoti, interiori, poi tornavo nel mio corpo, in piedi, appoggiato alla porta, la pioggia, il silenzio, questa terra era l’incanto di un luogo mai esistito.   


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