Avevo
riparato il tetto della casa di pietra, durante la mattina e sistemato la legna
vicino alla stufa, poi mi ero seduto su una poltrona di pelle logora, mezza
sfondata, il regalo di un amico, di tanto tempo fa. C’era della polvere che non
avevo più tolto, dalle finestre e da tutto quello che avevo intorno. Avevo
amato fin da subito questo luogo, le colline e la loro luce meravigliosa, erano
anni che vivevo tra i boschi eppure il tramonto che ogni sera vedevo continuava
ad emozionarmi, quella vista, quella pace, il modo in cui i colori diventavano
così tenui, dolci, umani e divini.
Mi
ero preparato una tazza di tè sulla vecchia stufa, dopo aver acceso un fuoco
all’interno, ero nella grande stanza centrale, con i suoi muri di pietra e i
suoi fantasmi, mi venivano a trovare, ogni tanto, quando li vedevo nel
movimento di una tenda nell’aria o nei riflessi di un vetro. Facevo lunghe
passeggiate e raccoglievo dei funghi, avevo imparato a riconoscere quelli
magici, li mangiavo e continuavo a camminare, le prospettive che cambiavano in
scenari gloriosi e splendenti, tonalità e sfumature che vibravano come onde
nell’aria e i pensieri che esplodevano come scintille su ogni filo d’erba. Non
c’era più nessuno a cui dovessi raccontare la mia vita, perché non c’era più
nulla da narrare, anche il libro nero si era ricoperto di polvere, riposto in
un cassetto dimenticato. Bevevo vino, gin, una volta alla settimana scendevo al
paese con la mia macchina scassata e compravo le provviste per quella
successiva, scambiavo qualche parola, qualche sorriso con la gente del luogo, poi
ritornavo alla mia solitudine.
L’autunno
aumentava l’odore dei ricordi, il legno bruciato e la cenere, tutto quello che
avevo voluto le fiamme distruggessero, le fotografie sbiadite, quelle
strappate, solo nei sogni quegli incontri avevano ancora un senso, continuavamo
a essere giovani, io, i miei amici e le mie amanti, chi avevo perduto, ancora
intrappolato nei giorni, la mattina accendevo di nuovo il fuoco nella stufa e
preparavo il caffè, lo bevevo lentamente, su una sedia di legno, con cuscini
orientali ormai deformi, mi accarezzavo la barba, un gesto che non avevo mai
saputo abbandonare, c’erano così tante cose da fare perché nessuna di esse
aveva più importanza, non c’erano tanti pensieri, perché le azioni riempivano
gli spazi mentali, poi fuggivo ancora, per il rischio della scoperta, oltre gli
alberi e le rocce e le montagne, oltre gli sguardi di chi non avevo più
incontrato, lontano, in paesaggi remoti, interiori, poi tornavo nel mio corpo,
in piedi, appoggiato alla porta, la pioggia, il silenzio, questa terra era
l’incanto di un luogo mai esistito.
Nessun commento:
Posta un commento