mercoledì 19 aprile 2017

Bangor


Nicki si ferma in mezzo alla strada, scendo dalla macchina e inizio a camminare verso le banchine del piccolo porto. Il cielo è grigio e in lontananza ci sono sagome mistiche di montagne, minuscole luci rosse lampeggianti nell’aria, gli uccelli marini che volteggiano e fischiano, una leggera pioggia che accarezza le foglie degli alberi, ormai gialle e arancioni e pronte a cadere, perché come ripetevano i saggi nulla era destinato a durare. Mi infilo il cappello di lana nero in testa e metto le mani dentro le tasche calde del giaccone imbottito, supero una vecchia struttura industriale, mi fermo per qualche minuto ad osservare i grandi tubi turchesi, le reti metalliche che impediscono di arrivarci, la sporcizia lungo il perimetro e le bottiglie rotte, gli avanzi di cibo dentro i contenitori di plastica, le siringhe e gli aghi, l’eroina era arrivata anche qui e difficilmente se ne sarebbe andata. Dentro i cessi pubblici c’erano delle cassette attaccate ai muri dove i tossici potevano lasciare i loro strumenti di dolore ed estasi. Arrivo al pier e non c’è nessuno, supero il cancello aperto e cammino in questa solitudine fatta di legno e metallo, intervalli di panchine vicino alle ringhiere bianche e blu e immagini improvvise dell’estate. C’era una schizofrenia climatica che influenzava le menti delle persone che vivevano in questi luoghi ed era del tutto lecito lasciarsi andare, impazzire, adottare uno stile di vita stravagante, indossare vestiti colorati e farsi crescere barba e capelli. Bastava un sorriso per risolvere i problemi e un’occhiata per intendersi e su quelle panchine, i ragazzi e le ragazze, quando il sole decideva di rendere gloriose le giornate, imparavano a baciarsi e a toccarsi, le mani tra le cosce nude di una giovane fanciulla, i peli della sua fica umidi, c’era un tempo in cui anche queste cose avevano avuto importanza, il fascino della scoperta e del proibito, poi imparavamo i trucchi della vita, soprattutto quando le cicatrici si facevano troppo profonde e difficili da guarire.

A metà del pontile la pioggia è diventata più forte, obliqua e fredda e picchiava contro il giaccone e i miei vestiti e non c’era nessun posto dove ripararsi e allora ho deciso di tornare indietro, perché c’era un lavoro che dovevo fare e i ricordi e le speranze li ho lasciati su quelle assi di legno, insieme alla sborra che mi colava dal cazzo in una delle stanze segrete di Berlino. Ero completamente fradicio e ho camminato verso il porto, la piccola barca era dove doveva essere, sono salito, intorno non c’era ancora nessuno, ho aperto una cassa di legno che si trovava sotto una tela cerata e ho preso i panetti di hashish ancora imballati, erano una mezza dozzina, li ho messi nella borsa di plastica piegata che mi ero portato dietro, ho richiuso la cassa e poi sono tornato verso la strada. Avevo ancora un pò di tempo a disposizione e sono entrato in un locale a bere un caffè, aveva smesso di piovere ed ero ancora fradicio e volevo un po’ di calore, non quel tipo di calore, ma la semplice sensazione di sedermi in un luogo asciutto con qualcosa di caldo fra le mani. Lungo le vie le riconoscevo subito le persone che avevano deciso di oltrepassare lo specchio, erano simili a me e io a loro, i tossici con le mani tremanti e una sigaretta fra le dita. Ho ordinato il caffè e l’ho bevuto lentamente, guardavo fuori dalla vetrata le donne che passavano, ho sentito l’inizio di un’erezione quando il culo di una ragazza è apparso rinchiuso in dei pantaloni neri che ne risaltavano le forme, sono uscito, la tazza era ormai vuota, pensavo di seguire quelle chiappe per vedere quanto mi sarebbe diventato duro, poi ho lasciato perdere, era tempo di andare al parcheggio e incontrarmi con Nicky. Lei era lì ad aspettarmi, uno sguardo di intesa, senza parlare, sono salito in macchina, lei ha messo in moto, i vestiti ancora bagnati, lei ha acceso la radio, io ho sistemato la borsa di plastica sotto il sedile, fuori il paesaggio scorreva, lo guardavo andar via senza pensare a nulla, perché non c’era più niente che avesse realmente importanza in quelle immagini in movimento che si ripetevano all’infinito.

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