Elizabeth
veniva a trovarmi di notte, usciva da un armadio bianco, nella stanza dove
dormivo. Si sedeva su uno sgabello, accavallava le gambe e accendeva una
sigaretta. Da sotto le coperte la guardavo, lei mi diceva di non vergognarmi,
allora mi alzavo, completamente nudo, lei sorrideva e poi mi proponeva di
indossare i suoi abiti, le vestaglie, il vestito del giorno del suo matrimonio,
quello azzurro, per le serate di ballo, mi andavano alla perfezione, lei
spegneva la sigaretta e prendeva la sua macchina fotografica, mi faceva mettere
in posa e scattava, i guanti lunghi, oltre il gomito, le calze velate, le
scarpe con il tacco, mi passava un po’ di rossetto sulle labbra e poi mi
baciava delicatamente.
Alcune
volte mi raccontava delle storie, di quando era ragazza, dei luoghi dove aveva
vissuto, poi prendeva una vecchia scatola di metallo, la apriva, c’erano delle
piccole fiale dentro, morfina ed eroina, preparava la siringa e mi faceva un’iniezione,
le mie pupille diventavano minuscoli buchi neri, posso vedere la tua anima,
diceva lei, mentre mi massaggiava il braccio e i soli esplodevano nel corpo, ti
hanno mai fatto un clistere? Sussurrò una notte. No. Vuoi provare? Non mi piace
che mi infilino cose nel culo. Ne sei sicuro? No. Guardavamo il buio silenzioso
e oscuro, devo andare, sussurrò lei. Dove? Ovunque tu non possa raggiungermi. Una
foto sul comodino, la mattina dopo, lei nel suo vestito bianco, il giorno del
suo matrimonio, meravigliosa, avresti dovuto sposarmi, mi disse una volta, non
sarei stato un buon marito, risposi, avremmo dormito ogni notte insieme, non
riesco ad immaginare nulla di più terrificante. Il sorriso sulle sue labbra era
dolce, i suoi occhi leggermente socchiusi, avrei voluto essere la luce che li
illuminava, solo per far parte della bellezza di quell’attimo prima che la
morte lo trasformasse nel pallido riflesso di un ricordo.
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