domenica 5 marzo 2017

Bryn Rhyg #4



Stavamo guardando un divano, io e Nick, dentro ad un negozio di roba usata, lui diceva che era un buon affare, che lo avrebbe detto a Ken, quando saremmo tornati a casa, annuivo sorridendo mentre dal divano spostavo lo sguardo verso il culo di una giovane ragazza che stava passando fuori dalle vetrine del negozio - le immagini scorrevano al rallentatore e le variazioni della luce disegnavano strane coreografie sulle pareti piene di libri - lo scrittore si avvicina ad uno di essi, lo prende in  mano, lo apre, legge mentalmente alcune parole, alza gli occhi verso una serie di lampadari appesi al soffitto - c’è una bambina con una torcia e un anziano signore vestito di nero, la sua mano che si muove lenta a formare il simbolo del silenzio e la bambina che illumina con la torcia grandi gocce di vetro che pendono dai lampadari e il ricordo delle costellazioni nel cielo del Nord Europa, le vallate nascoste e perdute per coloro che avevano deciso di rinunciare a contare i giorni per immergersi in un unico e fluido presente - c’erano delle fotografie nella casa e i ricordi di un padre che si era spinto oltre le possibilità della propria mente, le intuizione psichedeliche che cercavano di spiegare e raccogliere le informazioni che arrivavano al cervello attraverso sconosciute connessioni psichiche, questi mutevoli sentieri di suoni e colori, dove il linguaggio si scioglieva in lettere di metallo fuso, lucenti e fredde, una grammatica dell’assurdo che aveva bisogno di regole inesistenti - collezionavamo insuccessi e umiliazioni perché non eravamo noi a decidere quale fosse il giusto ruolo da interpretare, io e Nick seduti su una panchina, in un giardino, a bere caffè nero, lui rolla e accende l’ennesima sigaretta, mi guardo intorno e ho come l’impressione di essere a Linares, dove abbiamo visto il divano? Mi chiede Nick, era qui o da un’altra parte? Non lo so, gli dico, con un lieve sorriso sulle labbra, abbiamo camminato lungo una strada, mi sembra, era ieri? Oggi? Due giorni fa? Continua lui, non ha importanza, gli dico, lascia stare, non pensarci, ma a Ken il divano potrebbe interessare, dice lui, lascia perdere, sussurro, poi dalla tasca dei pantaloni prendo una piccola pillola bianca e la ingoio, codeina, le prossime quattro ore in cui il tempo diverrà soffice e accogliente come cotone, guardo le foglie gialle, i corvi che osservano il cielo diventare grigio, passeggiamo lungo un fiume ed è come essere sospesi nel vuoto, perché non ho appigli, abitudini, luoghi dove andare o appuntamenti da rispettare - c’erano dialoghi inventati ed altri che erano gli sguardi a creare, lo sapevamo bene perché uomini e donne non l’avrebbero mai smessa di ingannarsi, perché ognuno voleva quello che gli era stato promesso - Mat fumava erba vicino alla porta, qualcuno aveva pulito il piazzale dalle lattine di birra vuote e schiacciate, lui parlava al telefono con un tono calmo e la voce bassa, la nebbia si insinuava tra le pietre, evaporando dalle fessure, Rebbecca non voleva guardarmi negli occhi, attendevo, non avevo fretta, strisce di coca lasciate su un piatto, sopra una lavatrice, gli antichi disegni che ritraevano le divinità giapponesi sedute nella posizione del loto, avevo cercato le sue mutandine, lo scrittore guardava la foto lasciata sul suo letto, la teneva stretta fra le dita, la tua pelle era distante, fino al punto di non essere mai esistita, mascheravamo il giorno con la notte, perché l’alba avesse lo stesso nome del tramonto.

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