mercoledì 15 marzo 2017

Bottiglie vuote, calde di luce (2009)


Ero tornato tardi a casa, completamente sconvolto, la birra ballava nello stomaco, al ritmo di una sinfonia di succhi gastrici e rutti. Appena arrivato in bagno stavo già collassando nella tazza tutto il divertimento delle ore precedenti. A causa dei conati mia madre e mio padre si svegliarono (credo anche mia sorella, ma non ho ricordi chiari di lei) e vennero in bagno. Mia madre accese la luce, io sghignazzavo con la bocca coperta di vomito, in ginocchio, davanti alla tazza. Non fecero molte storie, la presero bene, anche io continuai a ridere, poi mi sciacquai i denti e me ne andai a svenire sul letto.

Era un tempo in cui le notti erano magiche e misteriose e l’amore era ancora da scoprire nei volti delle ragazze e nei loro corpi e le ore e i minuti avevano una densità diversa, alcuni giorni erano così pieni, voluminosi, le cose accadevano naturalmente, le gente ti salutava, sembrava semplice vivere, spostarsi da una parte all’altra, attendere gli amici, rispondere al telefono, studiare e uscire.

Tutto questo sembrava avere un senso.

Una preparazione per quello che sarebbe venuto dopo.

Un’altra volta collassai dalla finestra, dal quinto piano, non me ne fregò un cazzo, aprii le persiane, mi sporsi e vomitai un paio di litri di birra con noccioline incluse nel cortile del mio palazzo, erano le due di notte, non so se qualcuno mi vide, per fortuna prima dell’alba la pioggia cancellò le tracce del mio spettacolo, l'indomani il cortile sembrava immacolato.

I brividi prima di ogni scopata.

La paura e il mistero.

Il calore.

Lasciarsi andare.

La pelle. Le labbra. Le ciglia. Le mani.

Scoprire l’amore.

Mi alzo calmo, respirando lentamente, il cervello è una nube bianca in un cielo azzurro, il tempo davanti, le azioni da compiere, il lavoro da trovare, le situazioni da sistemare, le immagini da dimenticare.

E

il continuo ripetersi.

Il continuo ripetersi.

Il continuo ripetersi.


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