giovedì 16 marzo 2017

Bryn Rhyg #6


C’era un teatro notturno, alcolico e alterato, dove i volti che lo scrittore osservava durante il giorno si trasformavano in maschere dai bizzarri lineamenti, il viso di Mat si rimodellava in tratti ghignanti, le curve somatiche come increspature di follia, gli attacchi di panico andavano tenuti sotto controllo, queste erano state le ultime direttive del dottor Ballard, prima che scomparisse in un tunnel psichico, la sua mano che si muoveva al rallentatore, circondata da un candido alone bianco, le vele e le nuvole all’orizzonte, le dita a proteggere gli occhi dai riverberi solari e dai granelli di polvere cosmica, perché l’universo era ancora lì, una sfera mentale infinita, esplosioni nucleari come bisbigli di un’amante tradita, tutte intorno a noi, servivano occhiali dalle lenti scure e uno sguardo capace di oltrepassare i disegni di luce sulle pareti degli aeroporti, sistemavo il nodo della cravatta e provavo gesti che appartenevano ad un altro personaggio, c’erano dei codici che solo chi non li conosceva poteva usare, era una forma di protezione della propria coscienza, gli agenti potevano riconoscermi solo quando l’altro spariva e rimaneva lo scrittore con la sua valigetta e i libri dentro e la macchina fotografica tenuta nel palmo aperto della mano, come un’offerta ad una divinità che solo le immagini avevano il diritto di adorare, per gli altri erano solo simulacri giganteschi impressi sulle pareti dei palazzi industriali, c’era una nuova generazione di architetti cresciuta nei sobborghi di università fatiscenti, nelle aule le lezioni tenute da uomini in costume da topo o coniglio, gli studi delle strutture lisergiche che avrebbero riscritto le mappe delle metropoli del futuro, in modo che non ci fosse stata più nessuna corrispondenza tra quei disegni e la loro proiezione nello spazio urbano, città di immaginazione, dove ogni persona poteva vedere strade, muri, edifici, torri, archi e ponti secondo la propria prospettiva e ogni punto di vista portava un’ennesima modifica ad un piano che non sarebbe mai stato rispettato, perché ogni mente creava i suoi quartieri dove rifugiarsi e impazzire - il parcheggio di un motel, di notte, la pioggia inquadrata contro la luce dei lampioni, lei si toglie una scarpa dal tacco alto e la lascia cadere sulla moquette del pavimento, suono attutito, la sua gamba si alza lentamente verso l’alto, una mano prende il tallone e ne soppesa la concretezza, il contatto della lingua, delle papille contro il tessuto delle calze, ancora prima di qualsiasi gesto o mossa inaspettata c’era l’istantanea certezza che nessuna decisione sarebbe servita e allora bastava proiettare quelle immagini fuori dalla scatola cranica e nuove sequenze prendevano vita intorno al nostro corpo, tagli del montaggio ed errori degli attori, quante volte potevamo ripetere i nostri gesti e le nostre parole prima che li considerassimo perfetti?
Gli altri non sembravano interessati e lo scrittore si lasciava sempre andare a performance improvvisate, intorno al tavolo si celebrava la fine di una nuova sceneggiatura, non c’erano personaggi e non c’erano dialoghi, chi cazzo ha scritto questa merda? Quale merda? Sono solo pagine bianche, ordinate secondo le tonalità di purezza della carta, dove cazzo sono le parole? Dove cazzo sono andate a finire? Le dita indicano lo scrittore, lui prende la valigetta, guarda senza più nessuna emozione tutti quei fogli sparsi ovunque, non credo ci sia altro da aggiungere, dice a voce bassa, sei licenziato stronzo, risponde una voce, lo scrittore sorride, al di là delle grandi vetrate centinaia di edifici si muovono in pallide allucinazioni.


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