Camminavo per brevi strade
silenziose, i ricordi della neve, le immagini bianche e fredde, gli alberi neri
– i luoghi erano gli stessi, ora dipinti di verde, decine di tonalità diverse,
le foglie vibravano nel vento, la voce degli alberi era tornata a chiamarmi –
un raggio di luce indica una nuova direzione, attraverso una piccola radura,
arrivo sulle sponde erbose di un fiume, l’acqua scorre placida e opaca, senza
riflessi, mi fermo pochi attimi a guardarla, mi giro e torno indietro.
Durante la notte la coscienza fluiva
nel buio, un altro fiume, oscuro e lento, trascinava detriti, sporcizia, resti
di frane, gli anni erano crollati, uno dopo l’altro, quello che ne restava
cadeva all’interno del fiume, qualcosa rimaneva sul fondo, sepolto, qualcosa
tornava in superficie e la corrente lo spingeva, portandolo ancora con sé –
aspettavamo, tutti quanti, di essere liberati, di conoscere la foce, l’estuario
di questo fiume, che eravamo noi stessi, dove saremmo arrivati, quale mare,
quale oceano avrebbe accolto tutti questi fiumi, con i loro detriti, i cadaveri
che marcivano gonfi e putridi, le foglie
morte, i rami che avevamo spezzato, le rocce lanciate per colpire nemici
invisibili, la visione si estendeva oltre ogni comprensione, l’oceano sarebbe
stato lucente e calmo, l’ora del tramonto, del vino e delle rose sarebbe
diventata eterna, tutte le nostre miserie sarebbero scivolate verso il fondo,
immobili e remote, non ci sarebbero più stati ricordi, rimorsi, occasioni
sprecate, errori e rinunce, saremmo diventati scintille e onde. La linea
dell’orizzonte non ci avrebbe più spaventato, perché non sarebbe esistito più
nessun limite alla nostra felicità.
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