giovedì 3 settembre 2015

Ausgang #9

Camminavo per brevi strade silenziose, i ricordi della neve, le immagini bianche e fredde, gli alberi neri – i luoghi erano gli stessi, ora dipinti di verde, decine di tonalità diverse, le foglie vibravano nel vento, la voce degli alberi era tornata a chiamarmi – un raggio di luce indica una nuova direzione, attraverso una piccola radura, arrivo sulle sponde erbose di un fiume, l’acqua scorre placida e opaca, senza riflessi, mi fermo pochi attimi a guardarla, mi giro e torno indietro.
Durante la notte la coscienza fluiva nel buio, un altro fiume, oscuro e lento, trascinava detriti, sporcizia, resti di frane, gli anni erano crollati, uno dopo l’altro, quello che ne restava cadeva all’interno del fiume, qualcosa rimaneva sul fondo, sepolto, qualcosa tornava in superficie e la corrente lo spingeva, portandolo ancora con sé – aspettavamo, tutti quanti, di essere liberati, di conoscere la foce, l’estuario di questo fiume, che eravamo noi stessi, dove saremmo arrivati, quale mare, quale oceano avrebbe accolto tutti questi fiumi, con i loro detriti, i cadaveri che marcivano gonfi  e putridi, le foglie morte, i rami che avevamo spezzato, le rocce lanciate per colpire nemici invisibili, la visione si estendeva oltre ogni comprensione, l’oceano sarebbe stato lucente e calmo, l’ora del tramonto, del vino e delle rose sarebbe diventata eterna, tutte le nostre miserie sarebbero scivolate verso il fondo, immobili e remote, non ci sarebbero più stati ricordi, rimorsi, occasioni sprecate, errori e rinunce, saremmo diventati scintille e onde. La linea dell’orizzonte non ci avrebbe più spaventato, perché non sarebbe esistito più nessun limite alla nostra felicità.



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