Mi aveva chiamato tua sorella. E ci avevo messo un po' a capire
chi stesse parlando dall’altra parte del
telefono. Poi qualcosa si era fatto strada dentro di me. Come una sfera di
calore. Alla bocca dello stomaco. Quella voce aveva messo in circolo dei
brividi che avevo dimenticato. Quella voce era dolce. E triste.
Quando mi disse quelle parole, qualcosa si bloccò. Il tempo, lo
scorrere del mio sangue, la voce che usciva dalle mie labbra. Poi qualcosa si
ruppe, come cristallo, come un oggetto di infinita delicatezza tra le mani di
uomini ruvidi e volgari.
Presi un treno. La mattina dopo. Avevo dormito malissimo, sogni e
ricordi avevano scavato tunnel nella mia mente, divorando i nostri viaggi, le
vacanze, gli anni di scuola, gli amici scomparsi, le scopate, i milioni di
canne che ci eravamo fatti insieme, i trip, la sabbia del mare, le confessioni.
Mentre sedevo accanto al finestrino, passava su di esso un film doloroso e
magnifico. Si alternavano, in un montaggio caotico e fulminante, gli scenari
naturali che il treno stava attraversando con le immagini del tuo volto, dei
sorrisi, i tuoi occhi che mi scavavano dentro, le tue orecchie a cui avevo
confessato i miei segreti.
Le sere in riva al mare a fumare e bere birra, i registi che
avevamo amato, Scorsese, Tarantino, Coppola, Kubrick, i libri di cui parlavamo
nelle interminabili e profumate e magiche notti d’estate, Kerouac, Bukowski,
Ellis, Palanhiuk, Welsh, la musica che mi avevi fatto conoscere, i dischi di
Coltrane e Miles Davis e Chat Baker, le stelle erano scintillanti e le onde del
mare delle fluorescenze misteriose.
Alla stazione, dopo essere sceso dal treno, comprai una bottiglia
di vodka e un paio di pacchetti di sigarette, così, per quel poco di
romanticismo che ancora avevo dentro al cuore, per brindare quando il coraggio
fosse venuto meno, per non essere come tutti gli altri coglioni di questo
mondo, perso dietro angosce e paure, inorridito dalla vita. Avrei fatto quello
che avevo sempre fatto. Essere semplicemente me stesso.
Abbracciai tua sorella fuori dalla stanza, era cambiata, erano
anni che non la vedevo. Come te, del resto. Tutto il tempo che eravamo stati
distanti senza più parlarci. avevo scordato il motivo del nostro abbandono, del
nostro silenzio. Ti avevo tagliato fuori dalla mia vita, come tu avevi fatto
con me. Non ti ho mai chiesto spiegazioni. Non ne ho mai volute.
Gli occhi di tua sorella erano lucidi, bellissimi, consapevoli di
qualcosa che vedevo in lei per la prima volta. Il dolore è un maestro inaspettato.
Entrammo nella stanza, tua sorella mi stringeva la mano. Il cuore
iniziò a battere più veloce, le ascelle a sudare. Le gambe divennero molli, la
bocca dello stomaco si chiuse. Eri disteso sul letto, immobile, ormai quasi
calvo. Un pupazzo, ecco cosa pensai. Poi ad un brutto scherzo. Poi mi venne il
dubbio che forse tutto questo era vero. In una maniera atroce.
I ricordi esplosero ancora una volta come un’atomica nel mio
cervello.
Arrivarono gli odori, le immagini.
Poi le lacrime, calde.
La stretta della mano di tua sorella si fece più salda.
Stavi morendo.
Adesso lo sapevo.
Mi sedetti da una parte e rimasi a guardarti.
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