Lei era seduta su un divano, obliqua, le
gambe incrociate, i piedi nudi, le scarpe da ginnastica bianche sotto un
tavolinetto, candele e un cesto di frutta, aveva un modo tutto suo di liberarsi
dalle scarpe e lasciarle per terra, era mattina e lei sembrava tranquilla,
aveva dormito tutta la notte e si sentiva riposata, avevamo buttato i cuscini
in un angolo della stanza, mi ci ero sdraiato sopra, nudo, lei mi aveva fatto
delle fotografie, le sorridevo, con il cazzo duro.
Le colazioni su una terrazza, d’estate,
guardando il mare, le lenzuola bianche e fresche, su un mobile c’erano i suoi
libri, una custodia nera per gli occhiali, un accendino, dei giornali e un paio
di orecchini d’argento, ti ricordi i giorni della tua giovinezza? – mi chiese,
no, risposi.
L’immensa libreria del suo studio, le notti
passate a scrivere davanti al computer, le portavo una tazza di caffè, ogni
tanto, la piccola sveglia rotonda posata sulla stampante, le ore giravano, il
sole e la luna, mi chiedeva se alcuni passaggi del suo ultimo libro mi
piacessero, le dicevo cosa pensavo andasse bene e cosa no, sembrava fidarsi di
me, della mia sensibilità, le sue dita si muovevano veloci sulla tastiera,
alcune volte mi addormentavo sul divano mentre lei finiva di rileggere quello
che aveva scritto, mi accarezzava i capelli, un gesto materno, nuda dentro la
vasca, le imperfezioni del corpo, i riflessi d’argento, sto invecchiando, disse
sottovoce, sei meravigliosa, le dissi, accarezzandole le braccia.
Un ultimo sguardo, su un balcone di pietra,
le luci sfuocate della città, lontane, volevo abbracciarla, rimasi immobile,
ricordami così, disse, quando tutto sarà scomparso.
Nessun commento:
Posta un commento