Stavamo dalle parti di Capalbio, a casa di Patrizio, un amico dei
miei genitori. Ero fuggito da Roma in preda ad una tristezza assoluta, non
sentivo più nessuno dei miei amici, la scuola era finita, il liceo intendo e mi
era sembrata una buona idea quella di tagliare con qualsiasi cosa avesse
riempito i miei cinque anni di scientifico.
Mi ero rifugiato in questa piccola casa, con parecchi libri da
leggere, sogni da organizzare, progetti futuri, come l’università o un viaggio
a Genova per andare a far visita a Fabrizio de Andrè, che non sapevo neanche
dove cazzo fosse sepolto. Però mi sembrava un bella idea. Quella di un viaggio
per andare a trovarlo.
Una sera, dopo cena, ci hanno raggiunto i miei zii, che avevano
preso casa a qualche chilometro da noi. Siamo scesi, io mio padre mia madre e
mia sorella e insieme a loro siamo andati sulla spiaggia. La notte era arrivata
e pensavo ai miei amici, pensavo che avevo un maledetto bisogno di loro, dei
loro corpi, delle loro voci, ma sapevo che era inutile, solo un'altra illusione
che con il tempo avrei dimenticato. Ho vissuto tutta l’adolescenza ad
immaginarmi la vita e a cercare il modo per poi renderla reale, coinvolgendo
gli altri, inventandomi serate e vacanze, non è servito a nulla, loro sono
scomparsi, io sono rimasto da solo. Da allora parecchie cose sono cambiate e io
ho imparato il significato della perdita e dell’abbandono.
Stiamo sulla spiaggia e mio padre tira fuori la chitarra e si
mette a suonare. E passano le canzoni di Guccini, De André, De Gregori, PFM,
New Trolls, Battisti, tutta la musica che mi ha fatto conoscere e con la quale
sono cresciuto e mio zio Marco rolla una canna di fumo, l’accende e poi
sorridendo me la passa e io mi faccio qualche tiro e penso che è proprio bello
stare qui con loro e che mi sarebbe piaciuto da morire conoscerli quando
avevano la mia età, fare i viaggi che hanno fatto, in Marocco, per esempio. Ho
una foto a casa, a Roma, con loro in una sterminata piantagione di marijuana. Sono
giovani, sorridono, io non ero ancora nato, non ero ancora entrato nelle loro
vite.
Passo la canna a mio zio Massimo che ha Silvia, mia cugina, sulle
ginocchia. Lei lo guarda e poi guarda le stelle. Mio padre continua a cantare,
mi sento bene, tanto e guardo in alto anche io, il cielo, l’universo, la
sterminata infinità che ci sovrasta.
Il mare continua ad arrivare e a bagnare la sabbia.
Le fluorescenze delle onde nel buio della notte.
La luna che ride.
Mio zio rolla un’altra canna.
I miei ventanni sono appena iniziati.
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