Riverberi
sonori e circolari, lei era sdraiata su una poltrona verde e indossava solo dei
calzini, dello stesso colore, una volta, mentre le accarezzavo i piedi ho
trovato un piccolo buco sui calzini che indossava, mi ha fatto sorridere, era
ancora una bambina – le osservavo il culo, il sorriso delle natiche, la pelle bianca,
liscia, il braccio destro piegato, la mano che sfiorava la base del collo, tra
il suo corpo e la poltrona c’era una vestaglia rossa, la mia, una moquette
marrone ricopriva il pavimento, era confortevole camminarci sopra, a piedi
nudi, soprattutto quando era inverno e fuori dalle doppie finestre si poteva
vedere la neve e immaginare il resto, stai ferma, le dissi, misi a fuoco e
scattai.
Molte
stanze, tanti corridoi, una lunga libreria di legno a due piani, le mutandine
messe ad asciugare nella camera dove avrei dormito, stranamente non ci ho fatto
nulla, alle piccole pinzette di ferro, attaccate ad una sottile asticella di
metallo, invece, non ho saputo resistere. Ai bordi di una piazza, una donna
conosciuta è arrivata per farci delle foto, lei mi ha abbracciato, io ho tirato
fuori il cazzo, la cappella rossa, ho sorriso e ho detto – scatta.
Il
ponte di una nave che scivola su un fiume immenso, lei che guarda dritto
nell’obiettivo, una ciocca di capelli bianchi, una coperta gialla intorno alle
spalle, varie tonalità di ocra, ovunque, riflessi, bagliori e scintille –
un’istantanea della mia giovinezza, seduti su una panchina di ferro, sul ponte
di un traghetto, la consistenza della vernice, il suo corpo caldo, vicino,
l’odore del mare e quello del tramonto, scivolavamo anche noi, verso anni in
cui non avremmo saputo più niente l’uno dell’altra, lei mi amava in quel
momento, qualcuno ci scattò una foto,
quell’isola divenne poi solo un altro luogo della mente.
L’ombra
di una piramide, il deserto silenzioso.
Due
figure sedute sulle enormi pietre, il volto della luna, il suo splendente
pallore, fredda sabbia, tra le fessure dei ricordi.
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