mercoledì 23 marzo 2022

freewheelin' #64

 La stazione degli autobus in Avenida America a Madrid era sottoterra, un labirinto di cuniculi ricoperti di cemento per giganti insetti con quattro ruote (o forse di più) che si muovevano nelle oscure memorie e nelle indecise speranze del sottosuolo (dove andare? Dove cercare la prossima connessione?) - C’erano tavolini bianchi al bar underground e luci alogene lungo i soffitti dei grandi corridoi per transitare e persone che camminavano con lo sguardo assente e cessi che non funzionavano e dialoghi che non riuscivo a trascrivere sul quaderno e cameriere con grembiuli rossi (che orrore, pensavo, lavorare in questa miniera del consumismo metropolitano, in un caffè, in un punto informazioni, tutto così disumano, c’erano prigioni ovunque, perdio, ci sarebbe stata una via di uscita da tutto questo?) - Direzioni invisibili che la gente seguiva. Perché? In attesa di cosa? Il prossimo amore, il prossimo impiego, la prossima scopata, la prossima inevitabile sconfitta? - Ovunque era sempre lo stesso, specialmente nelle città, tutto era omologato, impossibile da cambiare e difficile da graffiare, aggredire, sabotare, sovvertire. Qualcuno aveva deciso un ordine e quasi nessuno più si ricordava o sapeva chi era stato ma la maggioranza di noi si limitava ad accettarlo, a obbedire alle sue regole, a guardare in basso quando gli occhi ti chi ti scrutava ti stavano scandagliando l’anima, cosa era rimasto nella sua profondità? Cosa si nascondeva ormai nell’abisso del nostro abbandono?

Mi aspettavano altre cinque ore di viaggio fino a Bilbao e speravo che i paesaggi del mondo superiore, quando il nuovo pullman fosse ripartito, cambiassero in maniera drastica da quelli che mi avevano accompagnato da Granada a Madrid. Una totale assenza di fratture visive, di imprevisti estetici, il monotono modellarsi delle linee delle colline mi aveva sfiancato insieme alla ripetitiva presenza di solo tre colori: verde, giallo e un rosso scuro e sanguigno, quello della terra e delle sue ferite. L’azzurro del cielo era a parte. Poi sui fianchi dell’autostrada si susseguivano a ipnotiche e regolari distanze serie e serie di motel, con camion parcheggiati intorno a essi (probabili luoghi di incontro per scopate clandestine) e ancora partenze e ancora arrivi e ancora fughe e ancora separazioni. L’estate andava avanti, non mi ricordavo quando fosse iniziata e non sapevo se sarebbe mai terminata, il calore bianco mi aveva squagliato la memoria. Rumori metallici, un’ultima chiamata, era bello non avere nessuno che mi avesse salutato quando ero partito dal pueblo, ero stanco degli addii, dei saluti, delle promesse, ero stanco di questo mondo e porcaputtana pareva che oltre a esso non ne esistesse nessun altro. Ce lo saremmo inventati, compagni e compagne, in un attimo di eccitazione bolscevica da insurrezione anarchica e proletaria e lì non ci avrebbero più rotto i coglioni polizie, professori, agenti, guardie, controllori, politici, bigotti, banchieri e papponi. Metti un altro acido sotto la lingua, amore mio, quello che non hai saputo ancora immaginare te lo mostrerà il potere della tua creatività, perciò danza&distruggi, esulta, ci sono fiamme, adesso, intorno a noi, che hanno l’odore della notte e altre che gioiscono in esplosioni solo per te, scivola piano in questa dimensione senza futuro, le onde che senti arrivare sono gli echi di una giovinezza perduta o che deve ancora venire, nello specchio ci sei tu e l’altro, ogni giorno diverso, ogni giorno più osceno e meraviglioso. Accogli il domani come fosse un dono che giunge da uno sconosciuto, celebra il presente in ogni sconfitta che il tuo cuore trasforma nella dolce malinconia di un tramonto, in tutti i segreti che esso cela e protegge e paziente custodisce. Arriverà il giorno in cui non sarai più qui e altrove e ovunque e in nessun luogo. Sarai dento di me e ti aspetterò ancora. Ti aspetterò. Ancora.


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