lunedì 14 marzo 2022

Orgiva #75

 E anche John era morto, probabilmente da solo, mi aveva messo tristezza la notizia, anche se non lo conoscevo molto bene. Me lo ricordavo una volta al Metal Bar (Mental Bar, come lo chiamava Vanessa), ubriaco, che parlava senza che si capisse una sola parola di quello che stava dicendo e poi un’altra volta vestito da skinhead al bar di Tablones, anche se a me faceva pensare ad una grottesca e buffa versione punk di Mickey Mouse. 

Faceva caldo nell’appartamento di Sara e così vagavo nudo per le stanze, un paio di volte con la testa imbottita di acido ed era incredibile vedere le venature del legno muoversi e ondeggiare e le linee dei disegni sul quaderno di Sara animarsi e intrecciarsi fra di loro e quando le sfioravo mi sembrava di toccare la sua pelle e poi avevo gli occhi pieni di lacrime e un senso di pena per me e per lei e per qualcosa che sapevo bene stava per finire, tanto valeva non opporsi, lasciare andare tutto quello che un’altra volta non avevo voluto possedere e fare mio. 

I disegni geometrici del tappeto sembravano staccarsi e pulsare leggermente e nella penombra il soffitto si riempiva di composizioni astratte come fossero gentili spirali di fumo e i colori di un quadro prendevano vita e germogliavano in fluorescenze mobili e vibranti e dentro di me c’era ancora questa malinconia, questa tristezza così profonda, intima, familiare. 

Altri giorni me ne rimanevo a bere, a scrivere, evitando i contatti umani e la gabbia delle loro incomprensioni e c’erano sempre le montagne intorno, le vedevo all’alba e al tramonto dalla terrazza, quando la luce era di una sublime tenerezza e mi chiedevo dove andasse poi a finire la grazia e la quiete di quegli istanti. 

Le lancette dell’orologio del campanile giravano, a volte più veloci, altre rallentando fino alla stasi perenne dell’eternità, ascoltavo i rintocchi metallici della campana e quelli argentei del tempo e non sapevo più chi fossi fra queste mura e soppesavo così i pensieri che arrivavano nella mente come onde, nuvole d’aria, ipotizzando la difficoltà di tentare a rientrare dalla porta posteriore di una società che mi dava ribrezzo e nausea. 

Avrei dovuto lasciare quella porta chiusa in maniera definitiva e andare avanti nella direzione opposta, seguendo le vie che non portavano da nessuna parte, i sentieri misteriosi, continuando così a vagare senza meta, senza aspettative. 

Mi sarei nascosto in un  nuovo luogo di pura fantasia? C’era un’ansia di vivere che non sentivo più nei miei respiri e una tranquillità così vicina che apparteneva a quegli spazi che possono esprimere la bellezza dell’esistenza solo attraverso il silenzio. In una maniera dolce e impercettibile stavamo tutti morendo ed era da quando eravamo nati che lo stavamo facendo.


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