lunedì 28 marzo 2022

Roma #9

 C’era anche stato il tentativo di cercare e trovare un altro modo di vivere, di conoscere luoghi nuovi e incontrare gente diversa ed ero anche riuscito nel mio desiderio di scoprire e provare situazioni differenti e naturalmente poi avevo fallito nella mia utopica illusione che fosse possibile trasformare i miei sogni in realtà, ci ero andato vicino ma alla fine il problema rimaneva sempre uguale: le persone. E con esse la mia incapacità di averle intorno. 

Dopo cinque anni di peregrinazioni fisiche, mentali, spirituali ed erotiche ero tornato a quella che era sempre stata la mia casa: Roma. E tutto appariva magicamente uguale e diverso, era una sensazione meravigliosa quella dei primi giorni, almeno fino a quando qualcosa o qualcuno non avesse iniziato a turbarmi di nuovo. Sarei fuggito un’altra volta? Difficile dirlo, volevo un periodo di quiete e riposo e mi piaceva la compagnia dei gatti nella casa di mia madre, così silenziosi e calmi, mentre mi guardavano fare le mie solite cose: leggere, scrivere, vedere film. 

E c’era una luce onirica nelle strade e fra le ombre delle persone che catturavo con i miei occhi e un’estetica di profili e anime rubate che avrei dovuto sviluppare e certo che avrei ancora vagato per le vie delle città, a testa alta, ad occhi bassi, ridendo, piangendo, chissà, non che avesse molta importanza, non che ne avesse mai avuta. Gli anni passavano e la mia immagine cambiava, brillante, oscura, ridicola, seducente, riflessa in costanti oscillazioni cromatiche, come nello specchio della casa di Sara, dopo che l’acido aveva cominciato a fare effetto.

Le persone del quartiere, le riconoscevo, sorridendo fra me e me, non se ne erano mai andate, erano ancora qui, neanche ci avevano provato a difendersi da questa società divorata dai morsi degli squali in giacca e cravatta e strangolata dalle leggi del capitale, la avevano accetta e si erano arresi, non potevo biasimarli, avevo fatto come loro, ma il mio era un abbandono cosciente non alla società ma alla vita in se stessa. Ai suoi misteri, alle sue imponderabili direzioni. Qualche poeta aveva detto che il nostro dovere era uno solo: vivere. Aveva ragione e con la vita sarebbe arrivata la morte, un giorno qualsiasi, né migliore, né peggiore degli altri. E volevo essere pronto per quel momento e avere sistemato tutto quello che dovevo sistemare e fino adesso mi sembrava di averlo fatto e anche bene, attraversando le zone d’ombra dell’esistenza e i suoi dubbi, inseguendo gli abbracci del dolore e le calde lacrime e i baci e gli ultimi addii. E sapevo che quasi nulla mi legava più agli altri o ai posti dove per qualche tempo mi fermavo, il futuro si era smarrito, il passato palpitava costantemente nel mio cuore. Non guardarti indietro, non andare avanti, diceva una voce. Nessuno che conosca il mio nome, nessuno che sappia cosa abbia fatto, chi sia stato, le tue parole, le tue parole, i racconti infiniti di struggenti e frementi emozioni smarrite, la calma interiore, ecco ciò che resterà di quella voce che avresti dovuto ascoltare da così tanto tempo, di quel silenzio, di quell’attimo sconosciuto in cui hai capito che nulla era vero e che un giorno saresti scomparso, così lontano da non tornare mai più.


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